Carlo Galli, Forme della critica. Saggi di filosofia politica, Il Mulino 2020, pp.288
Se intesa come astrazione, la filosofia ha un suo proprio limite: la prassi. Carlo Galli nel suo nuovo libro sulle forme della critica indaga questo limite intendendolo però come critica. Più che una fenomenologia della critica, questo importante volume ci offre alla fine della lettura una critica della fenomenologia, ovvero «L’esigenza di chiarire quali siano le forme della critica, quale sia la loro struttura e la loro finalità, e quali di esse qui si intenda praticare». Ovvero, «Mentre la critica ha un’essenza epocale, le sue forme non solo hanno origine dalla contingenza ma a questa sono strutturalmente aperte: la critica razionalistica può essere normativa o meramente utilitaristica; la critica dialettica può essere mistificante, conciliatoria, rivoluzionaria, dogmatica; la critica del pensiero negativo può essere l’apertura sulla libertà della vita o l’azzeramento nichilistico di ogni fondazione; la teoria critica francofortese può essere declinata come impegno emancipatorio o come rinvio alla prassi».
Il «limite» di cui si diceva è – nel pluralismo delle forme (cioè dei modi) della critica – individuare «Un’unità alla quale sono interni sia il soggetto criticante sia l’oggetto criticato, incluso ed escluso». Tale «dimensione della criticabilità», oppure altrimenti detta uno «Spazio unitario all’interno del quale la critica disegna linee, opera separazioni, istituisce sbarramenti, confini distinzioni», è interna al nodo costituito da immediatezza e mediazione. Ma qui abbiamo a che fare con un «nesso» (la realtà politica che viene investigata in questo libro) che è immediatamente mediazione e quindi astrazione (come dice giustamente Galli «rapporto») e limite (e quindi prassi, «contingenza», critica, un mondo di «crisi senza critica adeguata, e senza risoluzione» ovvero «La globalizzazione non porta stabilità, ma movimento e contraddizioni, anzi contraddizioni in movimento»).
Già in un suo precedente volume risalente a 12 anni fa Contingenza e necessità nella ragione politica moderna (Laterza, 2009) l’autore de Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt (Il Mulino, 2008) aveva introdotto la tematica del «conflitto» tra fatti e valori che, tradotto nel linguaggio del libro che si sta qui recensendo, diventa oltre quello tra immediatezza e immediatezza, anche quello tra logos e realtà.
In queste «interconnessioni del reale» la filosofia proposta da Carlo Galli – per fare luce sull’opacità – è il «realismo critico». Nelle parole del filosofo di Modena esso è: «Un’analisi dell’esperienza storico-politica la più estesa possibile, in cui le scienze sociali siano utilizzate, ma che vada oltre la loro descrittività, per catturare ciò che vi è di radicale in una fase storica; all’estensione deve affiancarsi l’intensità, la discesa verticale alle strutture profonde». In definitiva una filosofia (realismo) che non può fare a meno di una critica (la teologia politica) per portare in luce: «Relazioni, eventi, processi, tensioni concrete, narrazioni soggette a diverse interpretazioni, posizioni dogmatiche che costituiscono l’effettiva trama del reale». Una luce (biopolitica e teologico-politica) che deve «fare luce» sull’«Opacità originaria della ragione moderna».
Ricapitolando: se critica è giudicare e separare, all’inizio ci sono un soggetto (che critica) e un oggetto (che deve o vuole essere criticato). Questa critica ha diverse forme: «La critica razionalistica fa oggi emergere la linea della giustizia e dell’ingiustizia (ovvero interpreta l’esperienza dal punto di vista del fiorire o del deperire del soggetto e delle sue facoltà); altre critiche portano alla luce le linee del colore (le forme di esclusione o di subalternità derivanti dal pregiudizio razziale); altre ancora si concentrano sulla linea del genere (rilevando o le discriminazioni operate sulla diversità, o la neutralizzazione delle differenze che si realizza attraverso la neutralità del potere/sapere moderno, o reagendovi con strategie di separazione, oppure di conflitto, oppure di interazione dialettica); altre critiche portano alla luce le linee di subordinazione generate dal colonialismo e le assumono come paradigma per definire i rapporti intellettuali e politici; altre sanno leggere nell’inclusione universale messa in atto dal neoliberismo le forme di esclusione e di espulsione, infine le stesse linee divisorie poste dal potere politico (in confini degli Stati) sono criticati dai border studies che fanno emergere come i confini, lungi dal separare l’interno dall’esterno in modo chiaro e distinto, sono stati trasformati dai migranti in spazi di conflitto e di ridefinizione antagonistica di identità; e dagli Stati in nuove modalità del potere di lasciar morire e far vivere».
Tutte queste forme, nel realismo critico si concentrano nella «teologia politica». Che è «L’emergere della latente struttura metafisica della ragione occidentale, l’origine contingente e nichilistica di ogni sua articolazione e mediazione», ovvero «Qualunque rapporto – legittimante o costruttivo – in qualunque modo articolato, fra l’elemento religioso e quello politico, fra Dio il Potere e la Legge, significa – nella sua forma più radicale ovvero quando non si atteggia come teoria della secolarizzazione produttiva – che quel rapporto sussiste anche quando si cela, si nega, si vuole superare. In ciò la teologia politica è critica, perché svela. Ed è genealogica, perché in quel rapporto vede l’origine».
In sostanza il soggetto che critica (al limite) si pone davanti al fatto (all’immediatezza) nella consapevolezza che «La realtà del realismo critico è un nodo di mediazioni e di immediatezza, di azioni e di coazioni, di contingenza e di contraddizione». Di fronte a questa «contingenza e contraddizione» la critica proposta da Carlo Galli deve da una parte descrivere (analiticamente – portare avanti un’analisi) e poi scendere in profondità (attraverso la teologia politica) verso una «intensità»: una realtà (politica) «In cui si possono leggere strutture esplicative e narrative che hanno un originario punto cieco di arbitrarietà; una realtà, quindi, mai del tutto neutralizzabile in un logos, o in una tecnica, o in una morale». Tale «punto cieco» o «opacità» o «Il Nulla, il Male, la Morte» è «Concreta, determinata: quel punto cieco è la proprietà privata del razionalismo liberale; la posizione di classe e lo sviluppo della storia nel pensiero marxista; la metafisica sottesa alla contingenza in un’ottica teologico-politica».
Dunque? Dall’analisi (circumnavigazione di un problema, di una situazione problematica) genealogica (alla ricerca delle cause di quel «punto cieco» ovvero di quella «opacità» cioè il «nesso non neutralizzato») si perviene a una proposta di una prospettiva possibile e a una «teologia politica» che funziona come un tramite tra i paradigmi (rinvenuti nella realtà politica) e l’azione su di essi, al fine di tentare una declinazione del criticare che da sempre è: «il separare, il dividere, per comprendere e giudicare (krinein), ma anche l’unire».
A proposito del possibile, Carlo Galli enuclea un «contesto» che costituisce «la struttura stessa del criticare» e che è lo «spazio unitario» del possibile il quale, come tale, è pur sempre «un’astrazione». Questa “astratta” filosofia del realismo dunque ha a che fare con un astratto contesto, nel quale mediazione e immediatezza ricevono le proprie rispettive caratteristiche in relazione a un punto cieco che le lega in un nodo, rispetto al quale Galli rinviene il «tempo del conformismo, della superficialità, della rassegnazione».
Questa «opacità» (ed è qui che il filosofo emiliano è grande) vuole dire che «La critica vuole preservare attivamente e normativamente quelle istituzioni, attraverso una continua attivazione delle tematiche dei diritti, della giustizia, della giustificazione, tanto dalle derive neoliberiste tanto da quelle populistico-plebiscitarie».