Mario Lancisi, La Divina Toscana. Dal Falterona al mare i luoghi di Dante Alighieri, Sarnus Editore 2021, pag. 80, € 7,00
Dal Falterona al mare ci accompagna il giornalista Mario Lancisi, toccando i luoghi della Toscana che Dante ha citato nella Divina Commedia.
In realtà tutto ha avuto inizio nel 1999 quando l’allora direttrice de Il Tirreno, Sandra Bonsanti, gli aveva proposto un viaggio nei luoghi toscani dell’Alighieri, visto che in un sondaggio del Corriere della Sera Dante era stato proclamato “l’uomo del millennio”. Così aveva vinto l’antipatia verso la Divina Commedia, nata tra i banchi di scuola per colpa di un’analisi eccessivamente strutturale, e aveva iniziato un percorso personale, tenendo come linea quella di “separare Dante dai dantisti pedanti”. E senza interpretazioni critiche, solo attraverso i versi della Divina Commedia, ha ricercato le tappe e i luoghi carichi di Storia e leggenda.
Ripubblicare dopo vent’anni il viaggio intrapreso sulle colonne di un giornale -grazie al permesso del nuovo direttore Stefano Tamburini- si accompagna alla speranza di far accostare in un modo nuovo i giovani ed i loro insegnanti alla Divina Commedia, ed a farla amare “come poesia e racconto di storie ancora vive e attuali”. Non è un caso che la Lonely Planet indichi “per il 2021 Le vie di Dante, come percorso interregionale dedicato ai luoghi tra Toscana e Romagna che il Sommo Poeta attraversò durante il suo esilio”.
Così nel V canto del Purgatorio, dove si trovano le anime dei morti per violenza, siamo di nuovo sorpresi dalla voce misteriosa di una donna: “ricorditi di me, che son la Pia;/Siena mi fè, disfecemi Maremma”. I pochi versi con cui Pia dei Tolomei ricorda la sua morte si trovano scritti in una lapide ben visibile tra i ruderi del castello di Pietra, in provincia di Grosseto, dove giovani universitari scavano ancora tra la polvere, in cerca di segni della Storia.
Santa Fiora, ai piedi dell’Amiata, ricorda le vicende degli Aldobrandeschi, potenti feudatari ghibellini, e Omberto, morto combattendo contro i Senesi a Campaldino nel 1259, lo troviamo tra i superbi nel canto XI del Purgatorio: “I sono Omberto; e non pur a me danno/superbia fa, ché tutti i miei consorti/ha ella tratti seco nel malanno”.
La Maremma ritorna spesso con il suo paesaggio paludoso e aspro, abitata da “fiere selvagge”, come nel XIII dell’Inferno; nel XXV il pistoiese Vanni Fucci, ladro di sacrestia e bandito, è inseguito da un centauro arrabbiato che ha in groppa più serpi di quante ne abbia la Maremma. Niente è risparmiato a Pistoia, colpita da una invettiva feroce: “Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi/d’incenerirti sì che più non duri,/poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi?”
La commozione è grande nel XXXIII dell’Inferno davanti allo strazio del conte Ugolino – Lancisi ricostruisce di ogni personaggio la vita e il contesto storico. La torre dei Gualandi, dove Ugolino fu fatto morire di fame insieme a due figli e due nipoti, attualmente destinata a biblioteca, sembra anche oggi risuonare dei loro lamenti: “Poscia che fummo al quarto dì venuti,/Gaddo mi si gittò disteso ai piedi, dicendo: padre mio, ché non m’aiuti?”
Ne deriva una dura condanna di Pisa: “Ahi Pisa, vituperio delle genti/del bel paese là dove ‘l sì suona,/poi che i vicini a te punir son lenti,/muovasi la Capraia e la Gorgona,/e faccian siepe ad Arno in su la foce,/sì ch’elli annieghi in te ogne persona!”
A San Miniato si racconta che sia stato segregato Pier delle Vigne: “Io son colui che tenni ambo le chiavi/del cor di Federigo” (Inferno XIII). Chiuso a chiave nella torre della rocca per quattro giorni, fu poi attanagliato da strane figure e accecato. Sotto il peso della calunnia e dall’ingiusto sospetto di tradimento, “si sfracellò il capo contro il muro della torre”.
L’Arno, “un fiumicel che nasce in Falterona/ e cento miglia di corso nol sazia” (Purgatorio XIV), è spesso evocato per descrivere le genti che vi abitano intorno: “Tra brutti porci, più degni di galle/che d’altro cibo fatto in uman uso,/drizza prima il suo povero calle”: questo per il Casentino, senza risparmiare gli aretini definiti “botoli”, cani piccoli e ringhiosi da cui il fiume si allontana, “torce il muso”. Quando l’Arno arriva a Firenze ingrossato dagli affluenti, “tanto più trova di can farsi lupi”: i suoi concittadini, per Dante, sono peggiori degli aretini.
Non manca Lucca, la città di Bonagiunta Orbicciani, goloso, (Purgatorio XXIV) che ricorda a Dante la figura di Gentucca, donna lucchese quasi sicuramente amata dal poeta: “Femmina è nata, e non porta ancor/benda”; città anche del barattiere Bonturo (Inferno XXI), il più barattiere di tutti: “Quella terra, che n’è ben fornita: ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo”, dice ironicamente Dante.
La Toscana è spesso citata da Dante, ma anche la Divina Commedia è amata dai Toscani: ci sono luoghi dove i vecchi recitano ancora i versi del Poeta, come a Montefegatesi, nel comune di Bagni di Lucca. E nel chiantigiano c’è un oste che serve bistecche mentre declama versi: “Per me Dante è come un padre spirituale. Ogni giorno leggo e medito un canto. Come una preghiera, un passo della Bibbia”.