Burgess Belli
Marco Giaconi amava parlare di letteratura e lo ha dimostrato fino alla fine: per quanto fosse una passione “in punta di piedi”, gli consentiva comunque di elargire perle, di aprire prospettive e soprattutto di sbarrare strade che con tutte le sue idiosincrasie ce l’hanno reso l’uomo indimenticabile che è.
Detto questo, si rimanda al suo ultimo pezzo
https://www.alleo.it/2020/10/12/alessandro-agostinelli-lospite-perfetta-sonetti-italiani-samuele-editore-2020-pp-66-euro-10/ che ha per argomento l’ironia in letteratura.
Non sono un esperto di teorie letterarie e non saprei discernere il falso dal finto, l’ironia dall’umorismo – ma vorrei parlare di un poeta dissacrante, anche in ricordo dell’humour salace del caro Marco Giaconi.
Vorrei dire di Gioacchino Belli.
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C’era un certo Anthony Burgess, cattolico e giacobino, che andava matto per Belli e qui ne tradurremo le pagine inedite su Belli. Sono una sorta di vademecum che si colloca a livello biografico all’altezza cronologica del suo romanzo di fantasia pura e sregolata, ABBA ABBA (1977) che è l’invenzione dell’incontro romano di Keats e Belli. In Italia ne esiste una traduzione di Masolino d’Amico dell’82 per Rizzoli.
Sul piano stilistico invece aggiungeremo che Burgess tradusse 71 sonetti biblici di Belli inserendoli nel romanzo appena citato anche grazie alla moglie, Liana Macellari. Per un medaglione biografico, estremamente interessante della signora vedere qui (https://www.telegraph.co.uk/news/obituaries/1571513/Liana-Burgess.html).
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Note dotte su Burgess traduttore le leggete poi sul sito della Edinburgh university (https://www.euppublishing.com/doi/full/10.3366/tal.2017.0275). Per la nostra storia basterà infine tenere a mente che Robert Garioch aveva tradotto negli anni Settanta i sonetti romaneschi di Belli in dialetto scozzese, quel Lallans cui accenna Burgess nel suo testo, sinora inedito in italiano.
Accostare il Lallans al romanesco può sembrare un’operazione singolare, ma è ben fondata quando si tenga presente che in Scozia è festa nazionale sia a s. Andrea (30 novembre) sia il 25 gennaio, quando cade il compleanno di Robert Burns che è poeta nazionale e bardo vivente nel suo tempo (1759-1796).
Il 25 gennaio gli scozzesi portano su un vassoio l’haggis, un piattone composto da fegato di pecora bollito a lungo infarcito di fiocchi d’avena, grasso, carne di bue, cipolla poi caricati di spezie – dopodiché può iniziare la cena con la recita di una poesia di Burns. Al canto di “Ma notate il bifolco nutrito di haggis!/ La terra tremante fa risuonare il suo passo,/Schiocca nel suo ampio pugno una lama/ Che lui sa far sibilare;/ E gambe, braccia e teste spiccherà/ Come cime di cardi.” si infilza l’haggis col coltello. Anche a Oxford.
Così si difende una tradizione e la sua bellezza, piegando i canti da trivio degli altri paesi per ripristinarli nella propria lingua.
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E il succo del suo saggio su Belli: parlare della dimensione locale, sulla soglia dell’intraducibile, per demolire le distanze. Il vero cosmopolita, lascia intendere Burgess, è chi ama visceralmente la sua patria, chi non si fa affumicare le narici dalle spezie straniere.
Ragionamenti desueti?
Andrea Bianchi
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Anthony Burgess, Belli in inglese
Belli è uno di quei poeti che ci fanno revisionare le nostre nozioni di grandezza letteraria. Troppo spesso si dà per scontato che l’importanza di uno scrittore risieda nella sua universalità, nella sua capacità di parlare una lingua diretta, senza note a piè pagina o glosse, rivolto a tutte le persone del pianeta. Quando insegnavo lettere occidentali in Malesia ai cittadini di quello Stato, a Cinesi e Indiani, trovai che Dante e Shakespeare erano meno universali di quanto avessi creduto sino allora. Quegli allievi non riuscivano a capire il cattolicesimo ecumenico di Dante ed erano in difficoltà con le abitudini sociali dell’Inghilterra shakespeariana. Ripiegai sulla letteratura moderna e finirono col ridere di Graham Greene. Non riuscivano a capire perché l’eroe di Il nocciolo della questionedovesse suicidarsi perché non riusciva a rimanere fedele alla moglie. “Perché” disse una scintillante ragazza malese “non si fa musulmano e sposa entrambe le donne?”. Universalità significa solo crudezze basilari – furto assassinio potere sesso. Vidi il film tratto da Shakespeare, Riccardo III, in un villaggio del Borneo e i nativi capirono abbastanza bene la trama basilare. Infatti pensavano, partendo dalle loro usanze, che fosse un racconto di qualche regno contemporaneo di un rajah orientale. L’unico romanziere universale e moderno è Harold Robbins. Ergo, è anche il più grande. Lui stesso lo crede, ma non dobbiamo unirci a lui in questa reputazione.
Ora, Belli si apparenta al modo di porsi di un Robbins. Scrive dei Romani in romanesco; si rivolge loro. I suoi primi uditori erano quelli delle taverne. Gogol fu impressionato da lui, Sainte-Beuve scrisse persino su di lui, anche se il nostro non era destinato a valicare le frontiere letterarie come Tolstoj e Dickens. Scrisse sonetti e l’unico modo di tradurre un sonetto è scrivere quel che si presenta come un nuovo sonetto. Usava un gergo stretto, non esportabile, quello delle strade romane. Non serve attendere una traduzione di Belli, quando che sia. Per conoscerlo devi andare da lui, dapprima render omaggio alla sua statua in Trastevere, poi sposare, come fece lui, una Romana che sia ben al corrente su di lui. Anche se poi ci sono parecchi stranieri in giro – soprattutto Nordamericani che amano Roma – i quali sbraitano agli increduli che Belli fu uno dei maggiori poeti dell’Ottocento, l’altro essendo probabilmente John Keats il quale, sepolto a Roma, è una specie di Romano onorario.
Quando fui introdotto all’opera di Belli fui scosso dalla sua oscenità e blasfemia. Questo perché ero stato cresciuto come un Cattolico inglese al quale i preti avevano detto che Roma era la mamma santa, mica una bagascia blasfema. Mi attendevo, visitando Roma all’inizio, che tutti i Romani fossero pii e devoti al Papa. Ora so che sono pagani e possono avvicinarsi alle sacre verità cristiane per vie volgari e blasfeme. Devono essere stati, si sostiene, altrettanto volgari e irriverenti nei loro modi verso il vecchio pantheon greco-romano. Il rispetto non sta nella natura del Romano. Il rispetto, avrei scoperto, non stava nemmeno nella mia natura profonda. Quando Belli incomincia a cospargere di cazzo e dumpennente una buona storia biblica che fraintende e altera a bella posta, riconosco che il senso religioso va più a fondo del rispetto e a volte lo si esprime al meglio con la blasfemia. La quale può essere pronunciata in modo genuino solo se credi in modo genuino. E puoi credere solo per prendi per garantito. La Vergine Benedetta sarebbe rimasta in dubbio per venir impregnata da un uccello, ma i Romani non hanno dubbi: è esistita allo stesso modo di Giulio Cesare.
Mi ero proposto di tradurre una settantina di sonetti di Belli in Inglese, e in stretta forma petrarchesca, addirittura. Ma il dramma di usare quella forma in Inglese è che la mia lingua ha così poche rime. C’è un personaggio in 1984 di Orwell il cui lavoro è portare i vecchi scrittori in linea con l’ideologia del partito dominante: deve usare la rima God-rod [Dio-bacchetta] in una poesia di Kipling perché non riesce a trovare altro. Quindi viene torturato e liquidato. L’Italiano ha però rime più che sufficienti per Dio. È stata dura mettere Belli in ABBA ABBA CDC DCD (o altre variazioni sulla sestina) ma ho dovuto farlo, l’ho fatto. La resa del romanesco nell’equivalente inglese era il vero problema.
L’Italia è fortunata ad avere ancora dialetti viventi – varianti del Latino che si sentono non solo in strada e nei campi ma si aggirano anche nei libri, e sono usate come mezzi di espressione ufficiosa. Questa situazione non la si trova più per l’Inglese. Nell’anno 1300 o giù di lì fu creata la letteratura inglese da molti dialetti, e fu messo tutto per iscritto. Chaucer scrisse nel dialetto londinese; Langland in quello di Worcestershire; l’anonimo autore, gigantesco, di Gawain and the Green Knight (opera sulla quale l’ultimo Tolkien profuse la sua maestria) scrisse in una forma anteriore del dialetto che considero mio, quello di Nordovest, di Lancashire e Cheshire. Quando Londra divenne la grande capitale culturale inglese, come pure il centro di potere politico, i dialetti presero a scomparire dai mezzi di comunicazione seriosi dell’espressione letteraria. L’inglese di Chaucer divenne lo stesso inglese che gli Italiani studiano oggi. Nessun Italiano sano di mente si impunterebbe a studiare l’inglese di Yorkshire o Devon o Sussex. Un solo dialetto inglese ha retto la costante dominazione dell’inglese londinese, ed è il Lallans sopravvissuto dagli Anglosassoni alle Lowlands di Scozia. La lingua di Robert Burns, la lingua di Hugh MacDiarmid, comprensibilmente il più gran poeta tra i viventi, benché questi lo imparò come si impara il Latino. E il mio dialetto originario è parlato ma non esiste più per iscritto. Era l’equivalente naturale del romanesco di Belli, ma non vi è ortografia. C’è un solo modo di scrivere inglese, oggi – la via di Londra.
Inoltre, lo scopo di ogni traduttore di Belli deve naturalmente essere quello di renderlo noto a un pubblico il più largo possibile. Fossi abile a usare il dialetto Lancashire per renderlo, non troverei un audience adatta a leggermi, giacché chi parla oggi l’inglese dialettale non è lettore di libri. Recitarlo in un pub di Manchester o di Liverpool? Possibile, ma l’audience sarebbe ancora limitata. Lasciate che dia un esempio del problema. Il sonetto 1748 di Belli parte così:
“Ma Ggesucristo mio,” disceva Marta,
“Chi cce pò arregge ppiù cco Mmadalena?”
Questo si rende alla lettera nell’inglese di Londra o del Queen, quello standard, come:
“Jesus Christ,” said Martha, “how can anyone put up any more with Mary Magdalene?”
Ma il sapore dialettale va perduto. Lo potrebbe recitare la Regina d’Inghilterra in persona. Provavo a renderlo così:
Martha said: “Christ, am full oop reet t’t’scoopper
Wi’ Murry thur.”
Ma l’ortografia non soddisfa e, ancora, mi sto avvicinando ad una piccola società regionale entro la quale non entrerebbero mai i letterati del mondo che parla inglese. Non farei del bene a Belli così. Per il Londinese doc è facile imparare il romanesco quanto l’inglese del Nordovest. L’unica risposta è un compromesso – la vera invenzione degli Inglesi, come la macchina a vapore e il gabinetto. Dovevo tradurre Belli nell’inglese di Londra – o di BBC o Oxford e Cambridge e Buckingham Palace – ma spero che il lettore proverà a rendere udibili i fonemi ed i ritmi nel dialetto che conosce meglio, non importa se urbano o rurale, posto che ne conosca uno. Ma la situazione è ancora falsa. L’Inghilterra non ha un Porta, non ha un Goldoni. La sua letteratura, come il suo governo, è irrimediabilmente centralizzato.
L’unica cosa che allontana le mie traduzioni di Belli dalla tradizione letteraria inglese – tradizione di buone maniere e discorso ripulito – è l’oscenità blasfema la quale può essere resa, naturalmente e in modo accurato, persino nell’inglese della Famiglia Reale (il Duca di Edimburgo e consorte della Regina è ufficiale di Marina e a suo agio nell’osceno quando l’occasione lo richieda). Nessun pericolo allora per i nostri cazzo or dumpennente. La forma dumpendebat, peraltro, arriva dallo Stabat Mater ed è un utilissimo neologismo anglo-latino: io lo uso regolarmente quando gli arcinoti equivalenti di cazzo mi hanno stufato. L’impatto dei contenuti di Belli rimane, e forse anche quello del suo idioma e questo, per il momento, deve bastarci. Quando, all’arresto di Cristo, il “Papa” (Pietro) lo si sente dire “me ne fotte del bastardo” (“I don’t give a fuck about the bastard”), lettori inglesi come il sottoscritto cattureranno, se non altro, qualcosa del sapore di Belli. Qualcosa è pur qualcosa, quando non è tutto.
Ma Belli rimane come una delle prove che la poesia è fondamentalmente intraducibile. L’Inghilterra del Dr. Johnson disse che i poeti tengono il linguaggio vivo, perché uno deve imparare il loro idioma per leggerli. Sono certo che Harold Robbins e, per quel che vale, Alberto Moravia, perdono poco quando sono tradotti in serbo-croato, coreano o nella lingua di Fuffalandia. Ma Belli cessa di essere Belli quando smette di essere romanesco. La mia speranza è che i miei timidi sforzi di tradurlo possano indurre poche persone a lui, nella sua veste originaria e nel suo habitat: è, in fin dei contri, una specie di santo per i Romani.
Anthony Burgess