25 Dicembre 2024
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Silvia Avallone, Un’amicizia, Rizzoli, Milano 2020, pp. 464

Questo è un romanzo che dimostra come non serva essere grandi scrittori.
Il soggetto della storia, il suo personaggio è lei che si proietta indietro ai primi del Duemila e si divide tra la ragazza che dice “io” e studia, arrivando a insegnare all’università – e quell’altra, lei, l’alter-ego micidiale dentro la società delle immagini che emette i primi vagiti, l’amica che vive il lancio dei social e vi crea la sua postura per diventare poi influencer.

Ora l’Avallone tutta questa storia la sa, l’ha vissuta e soprattutto ce la dice molto bene in un romanzo dove non sentite scuotersi e agitarsi i benché minimi interessi generali, da intellettuale mitteleuropeo in bivacco a Milano o Napoli. Un’amicizia va quindi letto lasciando da parte il rigorismo di forma e senza nutrire le pretese del portinaio istruito lettore di Proust come se si trattasse di una cronaca pettegola dell’alto mondo, condita da una scrittura divina.

E allora cosa dice la Avallone, come lo dice? Intanto, la forma. È su un livello medio di scrittura per il quale non occorre essere tutti Virginia Woolf o Tolstoj, col risultato che arrivati all’ultima pagina il libro lascia una sensazione rough, di cosa ruvida e dura. Ed è così perché non è un romanzo per intellettuali – è vivo. Soprattutto, vi si percepisce la mano femminile. Questo è titolo di merito e non di discriminazione arbitraria, in un panorama di scrittrici italiane al momento molto più interessante del parco macchine degli uomini. I maschi quando scrivono oggi, in Italia, sono sbozzati al confronto: tutti usciti dal rivolo di Baricco.

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Perciò Un’amicizia va goduto come un romanzo femminile. Ma cosa vi succede?
Succede che oltre alle protagoniste, a Elisa e a Bea, compaiono le madri, quelle che hanno fermato la loro vita una volta avuto il primo figlio. Queste madri sono cresciute negli anni Ottanta, nel mito.
Si tratta di madri che hanno rinunciato alle loro carriere di cantanti e modelle finendo col rappresentare, in modo più plateale rispetto alla controparte dei maschi adulti, un’Italietta che però lavora e certo, anche se non è internazionale nelle letture, lo è per le canzoni che ascolta: non poco.
E soprattutto questa piccola Italia ha un suo perché: è la provincia con la vita che si riduce alle scuole e in particolare al liceo classico con quella professoressa del romanzo che i maligni dicono sia ancora vergine ma che dà il senso della vita, come in quell’episodio indimenticabile in cui dice alla protagonista Elisa di lasciar perdere, di non comporre poesie.
Anche se Elisa è secchiona, è meglio finirla lì.

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Questa provincia si è evoluta rispetto a una decina d’anni fa, quando uscì Acciaio e la cosa si nota perché l’ombra lunga di Piombino è sempre ben riconoscibile dentro Un’amicizia. È la Piombino della Avallone ragazza, ma parla per tutte le province.
È una città invisibile dove se si legge poesia lo si fa con poeti italiani come Sereni e Penna e non Gottfried Benn, non Rilke: non siamo tutti figli dell’intellettuale ebreo e della pianista tedesca, non abbiamo le adelphine sul comò.

Questo è il mondo. La Avallone ce lo presenta con le sue ricadute a cascata: si è secchioni, nel mondo della città di T dietro cui si intravvede appunto Piombino col suo liceo classico a picco sul mare, e il problema è rimanere tali avendo comunque una vita piena, il senso dell’impegno.
Mi ha colpito questo tocco: sia Elisa che Bea (più frivola e senza una sua forza, potrebbe essere la Ferragni) portano comunque il loro “8” e capiscono al volo Sofocle e quello che dice sui valori di base, sul rispetto che sopravvive, nonostante tutto.

Qui siamo all’intraducibile. Un’amicizia è un libro molto italiano. Questa presenza dei classici greci che vi indirizzano non potrebbero averla nemmeno gli inglesi, al netto di tutta la loro boria di supremazia culturale, per il semplice motivo che non hanno il liceo classico. Quindi i grandi autori come Barnes e McEwan potrebbero pure calarvi nel romanzo l’Antigone come fa l’Avallone, ma il risultato sarebbe criptico mentre dentro Un’amicizia si dice tutto e lo si dice subito.

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Il risvolto negativo di questo ritratto esclusivamente italiano, fatto da una donna che poteva essere al liceo agli ultimi anni mentre ero al primo, in un mondo che non aveva ancora i selfie, è che è tutto microscopico, verace. Ma la Avallone riesce a presentarlo.
È il dramma di una vita e per dirlo non avrebbe senso la forma picaresca o romanzesca: la scrittura è tirata via, il libro è stato finito di corsa la scorsa estate, dopo un anno di prigionia pandemica, e vi dà quell’approdo finale alla prosa, coi nomi Morante e Moravia che Elisa e il suo ragazzo, dopo essersi  amati a Bologna, fanno propri: manco fossimo nel finale di Persuasione di Jane Austen.

Però Un’amicizia è dolente allo stesso livello di Persuasione. Dalla sofferenza arriva una buona scrittura per questo romanzo che in fondo verte sulla funzione della scuola e dei legami che vi stringono.
Perciò vi trovate la psicologia degli studenti, sentite questa rivisitazione dei rapporti a distanza di tempo, vedete come si ricrea il rapporto di Elisa col padre che è l’unica figura intellettuale e infatti una volta separato dalla moglie scivola nella depressione ma avrà poi la lungimiranza, anche perché intellettuale, di approvare la gravidanza sorprendente di Elisa.
E lei anche avendo un figlio sarà una donna libera, mentre Bea pur avendo successo mediatico libera non lo sarà mai.
Tra Elisa e Bea è amicizia profonda e violenta, di quelle che bisogna lasciar andare. A prescindere dai fattori che non consentirebbero di tenerla in vita, come quando Elisa a Bologna scopre che il suo ragazzo sta baciando in pubblico Bea. O forse è il contrario, è stata Bea. Ma questo cercare colpe esula dalla storia, l’episodio delirante e feroce, di sensualità femminile, è il lato grezzo del tessuto.
Ma l’amicizia deve spegnersi a prescindere.

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Per tornare al tema dell’istruzione scolastica, e chiudere.
Le protagoniste hanno avuto una vita intensa al liceo non tanto per la loro identità femminile più avanzata di quella dei maschietti, ma per la provincia dove si muovono che è comunque più interessante di quel che avviene nei grandi licei, nei Parini, D’Azeglio e simili.
È una zona italiana, questa della Avallone, dove ci si fa le ossa e non sono immaginabili esperienze parallele, come l’educazione nelle scuole dei preti, che ti raffreddano, ti marchiano a sangue.
Elisa e Bea portano le cicatrici delle madri, non dei preti. Non sono ragazzine raggelate da educazioni religiose di alcun genere. Silvia Avallone è stata bravissima a eliminare ogni allusione o anticipazione di attrazione fisica tra Bea e Elisa.
Eppure, una volta che Elisa si inserisce nell’accademia a Bologna (autobiografia trasparente della Avallone) inizialmente non sa difendersi.
Le servirà tempo.
Ma delle due non è lei la perdente e l’amicizia risulta complessa e degna di affabulazione romanzesca perché nasce dall’incontro di due debolezze, dalla loro dissonanza cognitiva.

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“Anche la mia passa da un estremo all’altro.” Mi voltai per mostrarle una cicatrice dietro la schiena di tanto tempo prima.
“È un bel tatuaggio” commentò lei.
Come potessimo parlarci così senza conoscerci, non so. Forse accade a tutti gli adolescenti di scostarsi i vestiti per confrontare le ferite inferte dalle proprie madri e vantarsene. (…)
Il mare di fronte era nero e denso come petrolio. In lontananza, i ragazzi grandi si spogliavano e prendevano la rincorsa per tuffarsi. Nudi, si baciavano in acqua coi capelli bagnati. Era agosto: il cielo inondava “d’un pianto di stelle” noi due.
“Tu sei bella” le dissi d’istinto.
“Anche tu, però hai un vestito bruttissimo!”
Non volevo più morire.
“Abbracciami” le chiesi.
E oggi mi chiedo come sia stato possibile che abbia preso un’iniziativa del genere. Io, che non mi ero mai lasciata sfiorare da nessuno che non fosse mia madre o mio fratello, almeno a Biella, e avevo il terrore del contatto fisico. Invece a T mi era venuta voglia di crescere. (…)
Appoggiò il mento sulla mia spalla e propose: “Aspettiamo una stella cadente”.
Rimanemmo lì per dieci minuti, forse un quarto d’ora: in silenzio, attente. Poi un punto cadde davvero, la vampa di un fiammifero nell’universo, che in un attimo si spense. Entrambe sussultammo, chiudemmo gli occhi pensando forte, li riaprimmo una dopo l’altra gridando: “Fatto!”. Non so quale desiderio abbia espresso lei, ma io, visto che non si è avverato, lo posso rivelare: che diventassimo amiche, per sempre.