“Rifkin’s Festival” (W. Allen, USA 2020)
Ottantacinquenne, Woody Allen racconta con ironia malinconica, o forse ormai con un timbro più triste che soltanto malinconico, la potenza e le disillusioni di Eros, le insoddisfazioni del lavoro e della famiglia, il gioco così presente nella vita di finzione e realtà o una realtà nella quale l’individuo non si ritrova più, e naturalmente il cinema, visto come via di fuga possibile. La musica, la sua altra grande passione, qui non c’è se non per la colonna sonora. Lo fa, di raccontare, ricorrendo a un linguaggio e a espedienti tecnici che richiamano, ma senza la stessa consistenza e finalizzazione narrativa, alcuni dei suoi primi lavori, come Stardust memories.
Il film è un lungo flashback raccontato durante una seduta di psicanalisi. Il titolo allude al festival del cinema di San Sebastián nei Paesi Baschi – kermesse settembrina davvero tra le più importanti – dove è collocata l’ambientazione (secondo la consuetudine, Allen offre suggestivi scorci della città che lo ospita) e a quello del protagonista, da lui vissuto, il festival cioè di Mort Rifkin-doppio e specchio di Allen, un docente universitario di storia del cinema in pensione e critico cinematografico, sposato con Sue (Gina Gershon) addetta stampa di Philippe (Louis Garrel), un bel regista francese di successo, il più acclamato del festival, uomo sin troppo sicuro di sé (superbo per phisique du rôle Louis Garrel). Mort, anziano e assai bruttarello, reagisce con filosofia e anzi con un qualche compiacimento vagamente e paradossalmente narcisistico all’intreccio amoroso evidente tra Philippe e Sue. All’inizio invero Mort non sembra crederci, e pur infastidito, e più che altro perché si annoia, si fida di sua moglie, sembra quasi scettico (mentre avrebbe dovuto essere esattamente il contrario) rispetto alla prospettiva del tradimento di Sue, peraltro molto più giovane di lui e avvenente. La notte, e qui sta un elemento centrale del film, Mort sogna di tutto (anche di giorno fantastica non poco), e il subcosciente di storico del cinema lo porta ad associare e mescolare le sue vicende e i suoi rimuginamenti del festival di San Sebastián con sequenze famose (riadattate e girate in un sofisticato bianco e nero fotografato da Vittorio Storaro) di film del cinema europeo, al quale Allen rende un ennesimo omaggio sincero, come sappiamo. E qui il maestro newyorkese ha modo di divertirsi (?) sciorinando una serie persino eccessiva di citazioni di opere e autori da lui amati: Fellini, Bergman, Truffaut, Godard, Welles, Buñuel. Altri vengono menzionati e all’occorrenza mal giudicati dallo stesso Mort in altre situazioni “reali” o di nuovo oniriche. In una scena onirica riuscita, una scena di pranzo familiare ripresa e riadattata da Il posto delle fragole, Mort è patetico: crede di vendicarsi sadicamente della scarsa considerazione in cui è tenuto dai suoi elencando una serie di riferimenti al cinema giapponese che suscitano solo compatimento e fastidio nei parenti commensali. Patetico è anche nella sua ambizione di scrivere un romanzo di livello, degno dei grandi della letteratura, senza riuscire a convincere nessuno di tale possibilità, nemmeno se stesso. Abbandonato da Sue tutta dedita al suo protetto Philippe e annoiatissimo da una mondanità festivaliera che ben conosce, Mort incontra Jo Rojas (Elena Anaya, presente nell’almodovariano La pelle che abito), una graziosa cardiologa spagnola dalla vita affettiva complicata dalla quale si reca per dei disturbi allo sterno, ma che poi fingendosi ipocondriaco inizia a frequentare. Matura anzi una passione senile per la giovane dottoressa, e questo sembra diventare il centro vero del suo festival. E’ proprio questa seconda parte di Rifkin’s festival, quella dedicata alla amicizia tra Mort e Jo, ad essere descritta più fiaccamente, meno scoppiettante, e non è neppure toccante giacché lo spettatore non può nutrire empatia verso un vecchio che si innamora di una donna totalmente al di fuori della sua portata, tra l’altro con sentimenti e giochi di seduzione che appaiono rimanere sempre in qualche modo superficiali, privi di vero pathos, superabili, rinunciabili.
E’ un film che non ha la capacità di coinvolgere e raggiungere corde profonde dell’animo (penso, tra i recenti, al sottovalutato La ruota delle meraviglie). D’altra parte almeno Rifkin’s festival come si suol dire “si lascia vedere”, merita di essere visto, e anzi fila per due terzi con un ritmo notevole, per poi adagiarsi in una parte finale più stanca e prevedibile. Assistendo alla proiezione non si può fare a meno di pensare, facendo gli scongiuri, che potrebbe trattarsi del testamento artistico di Allen e non sorprenderebbe in tal senso riscontrare un’opera non pienamente riuscita. Ma non così brutta come le ultime di molti importanti cineasti, da Pasolini a Fellini, da Altman a Kubrick. Il mattatore, bravissimo, del film è il 78enne Wallace Shawn, già con Allen per ruoli minori ad esempio in Manhattan, Radio days, Ombre e nebbia, Melinda e Melinda, ma anche spesso chiamato all’opera varie volte da Louis Malle e ancora da Stephen Frears.