Mario Coglitore, Viaggi coloniali, Il Poligrafo Editrice, Padova 2020, p. 160, 24 euro
Fare ricerca è una delle attività più complesse e più soddisfacenti. Ci si immerge in un composto in cui tutti prima di noi hanno esaminato e scritto in maniera competente e il più delle volte disinteressata a motivi strumentali. In buona sostanza si dialoga tra informati – cosa alquanto rara ai nostri giorni. La ricerca in campo umanistico e più precisamente in storia dei viaggi è poi un settore senz’altro affascinante.
Ecco che arriviamo al libro dello studioso Mario Coglitore che nel suo Viaggi coloniali ci porta a spasso in un periodo incredibile della nostra storia occidentale. Il sottotitolo del volume “Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento” riflette plasticamente i contenuti. Infatti il saggio di Coglitore comincia con una figura enorme e contraddittoria, quella di Roger Casement, irlandese al servizio della corona d’Inghilterra nell’analisi della conquista di Congo e Perù. Casement però fu un subalterno “di ritorno”, perché dopo essere stato il rappresentante della cultura coloniale per eccellenza, quella del Regno Unito che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo ha spadroneggiato in lungo e in largo su tutto il globo terracqueo, al ritorno in patria (forse schifato da ciò che aveva visto e relazionato nei suoi diari di viaggio, e poi accusato di omosessualità in un periodo in cui già Oscar Wilde aveva assaporato la tristezza dell’emarginazione) decide di dedicarsi corpo e anima alla causa irlandese, finendo per essere imprigionato e poi impiccato da parte di quel potere inglese che egli aveva servito con tanto zelo fino a pochi anni prima.
Apro una parentesi doverosa.
Ci descrive, con passione e precisione storica, questa ultima parte della sua vita il romanzo Veglia irlandese(Sellerio 1993) dello scrittore Athos Bigongiali, facendo raccontare la storia di Casement (eroe e traditore, scrisse Antonio Tabucchi nel risvolto di copertina del romanzo) alla cugina Gertrude Bannister, nella sua ultima notte di vita.
La vita di Casement è stato un eterno viaggiare in cui ogni méta era il principio di un’altra avventura.
Si viaggia per svariati motivi – ho sempre ripetuto – e il periodo preso in considerazione da questo libro è stato indubbiamente molto fecondo in questo senso. Non è un caso che un altro capitolo importante del libro sia dedicato a Emilio Salgari, uno degli scrittori di avventure per eccellenza. Dalle sue pagine egli ci restituisce un mondo esotico, al tempo stesso pericoloso e affascinante, che deve essere domato, conquistato, occupato, vissuto. Certo, la letteratura salgariana mette in evidenza anche i limiti e certe aberrazioni della politica coloniale inglese, portando a galla anche ragioni e sentimenti indigeni, ma quasi sempre positivi soltanto se uniti ad alcuni interessi di ciò che potremmo definire “riformismo coloniale”.
Dicevo che si viaggia per svariati motivi, mentre lo scrittore torinese (d’adozione) non ha mai viaggiato e l’unica traversata che riuscì a malapena a sopportare era quella di una lingua di mare che si può definire a fatica mare, l’Adriatico (peraltro si sentì male e vomitò). La persona che viaggiava per Salgari era il botanico fiorentino (ma pisano di formazione universitaria) Odoardo Beccari, i cui diari sono ancora oggi conservati presso il Museo Antropologico di Firenze e della cui corrispondenza si avvalse Salgari per ambientare con dovizia di particolari le sue storie esotiche.
La terza importante sezione di questo libro è dedicata alla tecnologia, cioè all’invenzione della mobilità più incredibile dell’epoca: il treno.
Di fronte a questa macchina che sbuffava muovendo merci e persone in gran quantità, su percorsi sicuri e protetti, nulla potevano le popolazioni indigene di tante parti della Terra. Penso a certe zone dell’Africa, all’India e agli Stati Uniti d’America dove non solo la ferrovia toglieva spazi agricoli, naturali e di economia di tante etnie che vivevano di materia prime naturali, ma era anche un cantiere infinito, bisognoso di mano d’opera schiavizzata e messa al giogo del duro lavoro quotidiano per un tozzo di pane di sostentamento. In questo senso belgi e francesi non sono stati da meno degli anglosassoni, anzi. Un certo Raphael Antonetti, per esempio, governatore nel 1925 dell’Africa Equatoriale Francese, decise di estendere a varie colonie la “caccia all’uomo” per la ricerca di manodopera da impiegare nella costruzione di strade ferrate. Infatti era proprio la ferrovia simbolo e materia concreta dell’industrializzazione, che si estendeva ovunque ci fosse necessità di razziare materie prime necessarie alla propria autorealizzazione.
Chissà se il colonialismo inglese, belga e francese è stato soltanto negativo. La prefazione al libro di Barbara Henry, che inquadra nella storia politica l’argomento trattato da Coglitore cerca di definirne il campo.
Già quattrocento anni prima spagnoli e portoghesi avevano conquistato il Nuovo Mondo con razzie, sterminii e sottomissioni. Tzvetan Todorov ne tracciò una storia attendibile e legata soprattutto al tema della comunicazione umana. Alla fine della sua ricerca tenne a precisare che “la conquista – cito a memoria – fu anche e soprattutto un incontro”. Sono passati ormai trenta anni da quel saggio todoroviano e la questione degli imperial eyes è cambiata notevolmente, inquadrando il tema pure all’interno della questione razziale e dell’individuo bianco ormai alla gogna della storia. Ma allora come inquadrare per esempio personalità come quella di Roger Casement?
La ricerca (come i viaggi), per fortuna, continua…