Joseph Stiglitz, Popolo, potere e profitti, Einaudi, Torino 2020
Da «un’analisi costi-benefici» alla proposta «di un’agenda progressista», Joseph Z. Stiglitz, in questo suo Popolo, potere e profitti. Un capitalismo progressista in un’epoca di malcontento (Einaudi, 2020) traccia e rintraccia quello che oggi i programmi televisivi di Serie B chiamano un «percorso» dentro il sistema economico attuale, rapportandolo ad alcune variabili economiche della teoria classica e ad alcune delle caratteristiche della «moderna» società «deindustrializzata» (concetto che Stiglitz introduce ma che non spiega; lo assume come un dato di fatto, cosa che si sarebbe dovuta e potuta evitare) caratterizzata dalla «eccessiva finanziarizzazione», dalla «globalizzazione gestita male», dal «crescente potere dei mercati» e dalla «liberalizzazione».
Quello che ne viene fuori è un’analisi non unilaterale e un aspetto per così dire «operativo» che cerca di «rappezzare» alcune toppe di un «sistema-mondo» ipermoderno, tecnologico, robotizzato, cibernetico, sociale, il quale presenta alcune inquietanti distorsioni e alcuni inquietanti paradossi. Per fare ciò il saggista ed economista statunitense (premio Nobel per l’economia nel 2001) utilizza alcuni concetti mutuati dalla teoria economica classica – nel corso di un’analisi, del resto, tutta incentrata sugli Stati Uniti di Trump ma che, per alcuni aspetti, si può estendere anche alla realtà di «tanti paesi del mondo».
Si comincia con l’introduzione del «potere di mercato», della «rendita» e della «ricchezza»; Stiglitz dice: «I sostenitori del libero mercato amano citare Adam Smith e la sua tesi che, nel perseguimento del proprio interesse personale, gli individui e le imprese sono guidati come da una mano invisibile a promuovere gli interessi collettivi. Ma dimenticano l’ammonimento dello stesso autore, secondo il quale “la gente dello stesso mestiere raramente si incontra, anche solo per divertimento e diporto, senza che la conversazione finisca in una cospirazione contro il pubblico o in qualche escogitazione per aumentare i prezzi”». Questo «potere di mercato» è tenuto assieme, rafforzato, consolidato e fatto crescere attraverso «fossati», «fratture», «barriere».
Per quanto riguarda la «rendita» l’autore afferma che: «La grande differenza tra reddito di lavoro e rendita è questa: se i lavoratori lavorano di più, la quota del reddito nazionale aumenta e, in un mercato perfetto, in cambio dei loro sforzi essi ricaverebbero tanto quando hanno aggiunto alla torta nazionale. Al contrario, è il semplice possesso a remunerare il proprietario di terre o di altri beni fonti di rendita». Cioè «Il termine tecnico in economia è “rendita”, e la ricerca della rendita è considerata un tentativo di appropriarsi di un’ampia fetta della torta economica del paese, al contrario della creazione di ricchezza, che cerca di incrementare le dimensioni della torta». Inoltre: «La ricchezza di una nazione poggia su due pilastri. Le nazioni si arricchiscono – cioè raggiungono standard di vita più elevati – diventando più produttive e la fonte più importante degli incrementi di produttività scaturisce da un aumento delle conoscenze. Ma la tecnologia può avanzare innanzitutto se poggia su fondamenti scientifici forniti dalla ricerca di basi finanziate a livello pubblico. Le nazioni si arricchiscono anche grazie a una buona organizzazione generale delle società, che consente alle persone di interagire, scambiarsi beni e servizi e investire con sicurezza».
In definitiva attraverso i concetti di «potere di mercato», «rendita» e «ricchezza», Stiglitz ci conduce all’interno della nostra «modernità» raccontando un mondo, peraltro neoliberista, nel quale «Coloro che detengono denaro e potere li hanno usati nell’arena politica per riscrivere le regole del gioco economico e politico in modi che ritornano a loro vantaggio». Avidità corruzione, corsa al guadagno, ribaltamento nicciano dei «valori» tradizionali, in una società nella quale si può contare «su mercati semplicemente sregolati» per fare il bello e il cattivo tempo (soprattutto il cattivo), per delineare un tipo di panorama nel quale (come conseguenza) si realizzano e si evidenziano disuguaglianze, disparità, instabilità, tensioni, attriti; conflitti tra stili di vita contrapposti.
Ho calcolato (per diletto) che l’attuale popolazione mondiale è di 7.800.000.000 di persone di cui soltanto 26 persone (secondo una statistica Oxfam del 2017) «Hanno una ricchezza pari a quella di tutti gli abitanti della Cina, Indica e Africa messi insieme».
Ciò vuol dire che 7.799.999.974 persone sul pianeta non ce l’hanno e che i primi 26 si accaparrano «Una fetta sempre più grande della torta della nazione». Agli altri 7.799.999.974 individui (cioè tutti noi) vivono alla meno peggio con stipendi e salari in fase di stagnazione da anni e senza possibilità di «ascensori sociali» (almeno: non per tutti) visto che Stiglitz prefigura, come punto della sua «agenda progressista» proprio la messa in campo di un «uguaglianza di opportunità».
Questo è il quadro! Stiglitz ha una grande fiducia nella politica (non a caso è stato anche presidente del Consiglio dei consulenti economici di Bill Clinton durante il suo primo mandato elettorale) che, a suo dire, dovrebbe regolare sempre l’economia. Dice infatti che: «Tanto l’esperienza quanto lo studio mi hanno fatto capire però che economia e politica non possono essere separate, soprattutto nel mondo politico guidato dal denaro che vige in America».
E infatti la sua «proposta» è tutta basata sul collettivo, sul «potere pubblico», sul «governo». Dare regole, insomma, a un capitalismo sregolato. Prima che il mondo intero diventi sgretolato.