Il peggiore Moretti di sempre: “Tre piani” (Italia 2021)
Che qualcosa nell’ultimo film di Moretti non funzionasse, e che forse Moretti non ne fosse troppo contento, lo si era inteso quando il regista ha deciso di non partecipare al gala finale della LXXIV edizione del festival di Cannes, dove Tre piani era in concorso per la Palma d’Oro. Vero, c’era stata una standing ovation dopo la proiezione, ma sia stato come sia stato il plauso era come vedremo subito immeritato. La nostra prima reazione all’uscita dalla sala: “ma era Moretti il regista?”. Sì, pare di sì, ma un Moretti irriconoscibile, rispetto a cinque, dieci, quindici anni orsono (per non andare oltre), come ha delineato da varie prospettive Luca Giannelli in una magistrale recensione (<https://www.kulturaeuropa.eu/2021/10/08/la-fine-di-nanni/>).
La prova morettiana, un adattamento mal riuscito dal romanzo omonimo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, difficilmente riproducibile nel contesto di Roma, dove i temi del confine, della vicinanza, della tensione interpersonale e interculturale planano tradotti in frammenti di tragicommedia delocalizzata, decontestualizzata e immotivata. Si tratta qui di stagioni di vita degli abitanti di un casamento del quartiere Prati, personaggi che non si incontrano mai, se non nella scena finale.
Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietti) abitano al primo piano, con una bambina che affidano spesso a due anziani e un po’ sbalestrati coniugi: la scomparsa per un certo numero di ore della piccola portata a spasso dal marito (tra il confuso e l’ambiguo) di questa coppia di anziani suscita enorme apprensione anzi ossessione in Lucio che non cesserà mai di temere che sua figlia abbia subito le attenzioni morbose del vecchio. Ma sarà Lucio ad avere un rapporto carnale con la nipote minorenne dei due anziani: ragazza con atteggiamenti da Lolita, o forse semplicemente innamorata del bell’uomo, con la quale irresponsabilmente e colpevolmente questi ha una storia; finisce sotto processo per abusi sessuali, anche per l’insistenza delle accuse della ragazza che avrebbe voluto continuare la storia con Lucio che invece si tira indietro. Al secondo piano abita Monica (Alba Rohrwacher), madre insoddisfatta e nevrotica, con il marito Giorgio (Adriano Giannini), di fatto quasi sempre all’estero per lavoro. Ansia, solitudine, angosce di madre che si trasformano per Monica in visioni irreali fino alla sua fuga con l’abbandono di tutto e tutti. Dora (Margherita Buy) e Vittorio (Nanni Moretti) sono invece due giudici che abitano al terzo piano. Il loro figlio ventenne, nella prima scena a mdp mossa del film, ubriaco investe e uccide di notte una donna. I due genitori assumono dinanzi alla vicenda un atteggiamento diverso, il padre apparentemente integerrimo e severo, ha piuttosto un atteggiamento punitivo verso il giovane, da cui è deluso, perché inadeguato alle sue aspettative, svogliato, non riconducibile agli standard sociali e culturali che Vittorio desidera. Dora è più comprensiva, sebbene dovendo scegliere tra figlio e marito scelga quest’ultimo, e anch’ella alla fine dinanzi ai rinfacci del ragazzo ne accetta la sorte, ossia la condanna alla detenzione, né rimasta vedova sembra in grado di ricucire col figlio un legame vero, di rilanciarlo. Qui il finale lascia uno spiraglio di apertura, ma l’impressione è che la donna sia destinata a rimanere sola.
Sono storie in realtà trattate in modo sconclusionato, privo di motivazioni, di elementi che giustifichino i comportamenti dei diversi protagonisti, piene di stereotipi che da Moretti proprio non ci saremmo attesi. Un’Alba Rohrwacher che vede animali e uccellacci in camera e “che ruolo dopo ruolo ormai solo a immaginarla ti fa venire l’ansia” (L. Giannelli), una recitazione di Moretti inguardabile, con un volto tirato, statico, e a momenti involontariamente comico. Probabilmente il peggior film di Moretti, un film che non merita neppure prolungate riflessioni, tanto è piatto nel richiamare, più che affrontare, temi pur importanti (relazioni tra padri e figli e tra coniugi, spettri mentali, egoismi borghesi e bambini lasciati troppo soli): così lontano non solo dai più brillanti, appassionanti, lucidi e sensibili film degli anni Ottanta, quelli della giovinezza dell’autore, o dall’ancora assai bello La stanza del figlio, ma anche dalla dignità di quelli più recenti, quali Habemus papam o Mia madre.