25 Dicembre 2024
Culture Club

Del Giudice, l’ordine inevitabile della frase

«E ogni notte fino ai dodici tocchi della mezzanotte un giovanissimo Cesare Pavese aspetta davanti al caffè concerto La Meridiana, sotto una pioggia insistente e gelida, la cantante ballerina Pucci che esce alle sei da una porta sul retro per incontrare un altro». Daniele Del Giudice (scomparso a 72 anni il 2 settembre del 2021) in questo libro raccoglie il «senso» – in un libro che è l’insieme dei «testi presenti in questo libro» – di un avventura umana ma anche di un analisi del presente, di una sfida con la letteratura ma anche di un percorso cominciato da Cesare Pavese quando «Perduto nella pioggia/sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina» e terminato (ma è mai veramente terminato?) con il «Non-scrittore italiano» Roberto Bazlen ma anche di una messa a fuoco dei «Sentimenti, le immagini, le ossessioni» che popolano un «testo» scritto ancora prima che venga scritto.

È una resa dei conti con la letteratura – in definitiva «In questa luce, metafisica come potrebbe esserlo un attaccapanni, il vedere è diventato il gesto più comune, è diventato azione». In questa luce (letteraria e metaletteraria) si consuma la messa in esecuzione di una diade.
Del Giudice scrive a proposito: «Custodire l’ombra della lingua lavorando al tempo stesso con la sua parte in luce, ecco un piccolo compito che uno può darsi nella narrazione». Questo «Custodire l’ombra della lingua» è «L’ordine inevitabile della frase»: «Nel momento del “lavoro”, della narrazione, tutte quelle possibilità erano ancora vive e compresenti, allo stato fluido, addensate in un unico nucleo emotivo, conoscitivo, nel quale i sentimenti, le immagini, le ossessioni arrivano e consistono tutte assieme, non disposte secondo l’ordine inevitabile della frase». Ma non si tratta di rimosso! Del Giudice, a un certo punto, afferma: «A dire il vero non è proprio rimossa, ma trasformata, e il conflitto, nel nuovo modo di produrre e di consumare in cui tutti siamo immersi, è diventato semplice competizione».

La letteratura è fatta di sguardi (In questa luce) non di luce ma di ombre oppure  «Tutto deve essere visibile in qualunque istante a prescindere dalle condizioni di luce» e, nello stesso tempo: «In un’epoca di totale visibilità, dove si ricrea il margine del non visibile?». Non si tratta di analisi sociologiche e meno che mai filosofiche. Del Giudice cerca di sfuggire – ma non alla sociologia e neppure alla filosofia o all’antropologia. Del Giudice sta cercando un «margine» all’interno del quale (e anche la stessa «morte» oggi cade In questa luce) raccontare, rappresentare, dire, enucleare un «conflitto» (o quello che resta, oggi, di un «conflitto»). Tanto per dire … Tanto per dire due cose … Un po’ per celia un po’ per non morire … Per fare essere la letteratura non soltanto «azione» e quindi «visione». Ma poi «visione» di che?

«Non più metafisica, non più estetica (anche se le nostre città scintillanti di neon e di segnali e di messaggi luminosi a lettere fuggenti hanno un’angosciosa bellezza) la luce, al termine del suo viaggio, è ormai un elemento antropologico, forse l’elemento della più radicale mutazione antropologica in questo secolo che volge alla fine. A cominciare dal nostro occhio, dal nostro sguardo. In tutti i secoli dei secoli, il nostro occhio, nonostante gli aneliti del cuore e della mente, non aveva mai tollerato le sorgenti luminose pure. Ciò che guardavamo erano le cose illuminate da una luce riflessa o radente, noi vedevamo nell’estremità della luce alle cose e nella lontananza della sorgente, il nostro sguardo lavorava nella penombra e nell’ombra, lavorava in quelle ombre retrograde dei corpi e degli oggetti di cui parla Hogart.

Una teiera si affievoliva all’affievolirsi della lampada, nel buio non esisteva. Una natura morta, nel buio era completamente morta, era spacciata. Ma gli oggetti che usiamo oggi sono oggetti di luce, emanano luminosità». Si ha l’impressione che Del Giudice non stia cercando quella «teiera» che «si affievoliva» e neppure «l’ombra» nella quale essa finiva: Del Giudice sta dicendo un’altra cosa. «E in effetti la prima cosa che sta perdendo significato è proprio la morte: nel mondo pacificato del benessere e del consumo, in cui anche l’immaginario e la spiritualità sono diventati materia prima di questo consumo e produzione, la morte (…) perde davvero significato, è solo un’insuperabile accidente, una inspiegabile fine dei giochi, la fine del gioco». «Ha ragione Ian Mc Ewan. Secondo un pregiudizio romantico e spiritualista, uno che scrive non deve avere alcun rapporto con la materia, non deve neppure sapere come si chiude la macchina del caffè, deve esser lontano dalla materia perché la materia è distante dallo spirito». Quella «teiera» che «si affievolisce» è «L’ordine inevitabile della frase» (inevitabile perché In questa luce c’è spazio pure per l’ombra o per la mancanza della luce, o per chiedersi quale è il «senso della frase» che dice la luce). Ma la «teiera» che «si affievolisce» è davvero la grande letteratura rispetto alla quale   – e ripeto: Del Giudice sta sfuggendo – bisogna porsi come Pavese e come Bazlen, come Italo Svevo e come Milan Kundera. Raccontare.

C’è ancora bisogno di raccontare. Anche In questa luce si può «intravedere» un margine, un orlo, un bordo; la letteratura ha bisogno della letteratura come Pavese della ballerina Pucci della compagnia Isa Bluettel. Resta da evidenziale che se questo «orlo» (nel quale la «teiera si affievoliva» non è l’inconscio, non è il rimosso, non è la ribellione contro la società alla MacDonald’s della globalizzazione, non è l’atteggiamento stanco (e statico) di Oblomov…

Forse questo «margine» potrebbe essere approcciato dal punto di vista di una letteratura che ha bisogno anche del «non detto». Non sono solo le parole che compongono il testo quelle che compongono il testo – del resto: «L’autore è soltanto il primo lettore di un testo narrativo; ciò che egli conosce più del suo lettore è tutto quanto nel libro non c’è più; l’autore è consapevole della miseria di quel che è rimasto, perché ha ben presente tutte le possibilità che sono state falcidiate, ricorda l’assassinio continuo che ha dovuto compiere a ogni frase, a ogni personaggio, a ogni pagina: nel mare di cadaveri che restano attorno a quel che sussiste».

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.