Pequod e il libro dei libri
MIRAGGI
Dietro ogni viaggio c’è sempre un miraggio da considerare. Dietro ogni viaggio di caccia c’è sempre un miraggio (o dei miraggi) di morte. Herman Melville in questo suo Moby Dick o la balena (prefazione e traduzione di Cesare Pavese, Adelphi, Milano, 1987) ci porta «dietro» ogni viaggio (di baleneria e di marineria) attraverso numerosi simboli (o allegorie, o segni, o profezie, o, appunto: miraggi) per farci scontrare alla fine con un grosso punto interrogativo. Il libro (dei libri) è la storia di un certo Ismaele che dalla «città insulare dei manhattanesi» si conduce – lungo l’asse di vari simboli – nell’isola di Nantucket che si trova nello Stato del Massachusets e misura 272, 6 km². Perché questo di Melville è il «libro dei libri»? Perché l’interrogativo che lo sorregge e che la narrazione pone in essere è quello definitivo. Ismaele conosce un cannibale (altro miraggio?), un tale di nome Quiqueg che adora un «piccolo dio nero» di nome Jogio (simbolo). Ismaele e Quiqueg fanno comunella. Quiqueg, di mestiere adopera il rampone, una fiocina ad ali lunghe e taglienti che in genere finiscono piegate per meglio ancorare i cetacei. E non solo questo rampone (grosso grosso ferro piegato a uncino munito di ardiglione che poi è la curvatura stessa della punta) se lo porta sempre dietro. Entrambi hanno un desiderio (anche il desiderio è un miraggio): rimettersi in mare tra l’equipaggio di una baleniera. Il «libro dei libri» è anche il libro nel quale c’è tutto (molti diranno che anche la Bibbia è il «libro dei libri» ma per chi ci crede essa non è un romanzo). In Moby Dick o la balena c’è pathos, ironia – basta leggere questo dialogo fra il locandiere della «Locanda del Baleniere» e Ismaele: «- Così è precisamente, disse il padrone e io gli ho detto che non l’avrebbe potuta vendere perché il mercato è pieno. – Di che cosa? – gridai. -Di teste, diamine: non ci sono troppe teste al mondo? – Fate bene attenzione, padrone, – dissi calmissimo – è meglio che la finiate con questa storia : non sono un pesce io. – Può darsi, – e prese un bastoncino e si mise a tagliuzzarlo a stuzzicadenti – ma certo che fritto lo sarete, se quel ramponiere vi sente calunniargli la testa. – Gliela romperò io, quella testa – dissi abbandonandomi di nuovo al furore dinanzi a quel inesplicabile farragine del padrone. – E’ già rotta – disse lui. – Rotta? – dissi io. – Rotta avete detto? – Sicuro, e questa è la ragione perché non riesce a venderle, immagino»), c’è sentimento e c’è ragione, c’è fantasmagoria e c’è gioia: si tratta del «libro dei libri» sia per il contenuto che in esso vi è espresso (le parole che lo compongono e che lo scrivono) ma anche per la sua struttura – tentacolare e onnicomprensiva – ma anche per la sua sovrastruttura: la rete dei segreti, dei misteri, dei simboli, delle rotte, della navigazione, del sogno e del progetto. La morte della balena è per Achab (il capitano del «Pequod» – sul quale si imbarcano Ismaele e Quiqueg) la soluzione dell’enigma della storia, o, almeno, di «questa» storia.
LA CACCIA
Il «Pequod» parte per la caccia per due motivi: per cacciare le balene (intendo: le «altre» balene) e per uccidere Moby Dick, la Balena Bianca. Bianca come la gamba d’avorio del capitano Achab. Intendo ancora – sia detto per inciso: le pagine in cui Melville descrive le caratteristiche del colore bianco sono le più belle e decisive del libro. Questo «bianco» è «elusivo»: esattamente come un miraggio (o un allucinazione) sta dietro a un altro miraggio che però è la Realtà. E’ come, è un po’ come, se dietro quella «maschera» (o almeno: così la definisce Achab) che è Moby Dick ci stia la vera Balena Bianca: dietro il cavallo c’è la cavallinità, alla radice della Realtà c’è il concetto. Così il «Pequod» si mette alla caccia sia del cavallo (il denaro: «Con questo forse Stubb accennò indirettamente che, quantunque l’uomo ami il suo simile, pure l’uomo è un animale che ama il denaro e questa propensione troppo spesso interferisce con la sua benevolenza»; tenendo conto che il romanzo è stato pubblicato a New Jork nel 1851 (esattamente l’anno dopo della morte di Honoré de Balzac che nei suoi romanzi aveva descritto, appunto, «il mondo del denaro») si vede subito che sedici anni dopo Karl Marx avrebbe posto mano al primo volume del Capitale: il XIX secolo, quanti altri mai: è stato il secolo del denaro) sia della cavallinità (il simbolo, il miraggio, il concetto che sta dietro alla Cosa). Ma cos’è questo miraggio?
PASTA DEL CAPITANO
Il prigioniero ha bisogno di scalare il muro per sfuggire alla sua prigione. Il prigioniero si deve liberare delle catene per uscire dalla caverna. E una volta fuori il prigioniero – Moby Dick è questo muro ed è queste catene – si deve rendere conto – nelle parole di Achab – che c’è «qualcosa di sconosciuto ma sempre di ragionevole»; qualcosa come un «senso»; anche se questa pasta di capitano agisce – è sempre lui a dirlo – da «insensato». La «pasta» che compone la sua carne adesso è stata trafitta, smorzata, annichilita: gli è fatto di pasta e di avorio. Bianca come la balena e come la «Pasta del Capitano», ma non è tutto. C’è anche qualcosa come una leggera «malinconia». Dice e scrive Ismaele (che nel corso del capitolo LXXXV intitolato «La fontana» scrive di stare scrivendo quelle righe il 16 dicembre 1851 fornendo le coordinate esatte di questa storia): «Quella nave era abbigliata come un qualunque barbaro imperatore d’Etiopia dal collo carico di pendagli d’avorio levigato. Era una creatura di trofei. Un cannibale di bastimento, che s’adornava delle ossa vinte dei suoi nemici. Tutt’intorno, le murate, senza pannelli e aperte, erano guarnite come una sola mascella dei lunghi denti acuti del capodoglio, inseriti là come caviglie per darvi volta i vecchi tendini e legamenti di canape. Questi tendini non s’infilavano in miseri bozzelli di legno terrestre, ma correvano svelti su pulegge d’avorio di mare. Sdegnando la ruota a manubri per il suo riverito timone, la nave sfoggiava una barra, e questa barra era una massa sola curiosamente intagliata nella lunga e stretta mandibola del suo nemico ereditario. Il timoniere, che governava con quella barra in una tempesta, doveva sentirsi come il Tartaro quando frena il cavallo focoso afferrandolo per la bocca. Una nobile nave, ma in qualche modo una nave malinconica. Tutte le cose nobili hanno un’ombra di malinconia».
OH, CAPITANO! MIO CAPITANO!
Il viaggio, la caccia, la baleneria, la marineria, i simboli: e poi certo un «muro» da sfondare. Il capitano Achab è posseduto da un’idea: vuole sfondare il muro; odia Moby Dick (forse ne odia il suo «senso») e vuole passare dall’altra parte. Dalla fisica alla metafisica; come in una pazza (il pazzo Pip e il profeta Elia insieme al Fedallah Parsi costituiscono la parte più visionaria del romanzo) teodicea anche Melville sta cercando un senso. E Achab con lui. Un senso che si trova metafisicamente nell’Iperuranio e nell’oltremondano dove «Per cui, considerato tutto ciò, teniamo la balena per immortale nella specie, comunque sia perituro l’individuo. Essa traversava i mari prima che i continenti rompessero le acque; essa nuotò un tempo sui siti delle Tuileries , del Castello di Windosr e del Cremlino. Nel diluvio di Noé, spezzò l’Arca e, se mai il mondo dovrà essere un’altra volta sommerso come i Paesi Bassi per liberarsi dei topi, allora l’eterna balena sopravviverà ancora ed ergendosi sulla cresta più alta dell’onda equatoriale sfiaterà la sua sfida schiumante nei cieli». Troppi simboli, troppe metafore, troppi miraggi: Hermann Melville sembra avere fatto del mondo della baleneria un assoluto. Ne racconta i luoghi e i tempi, le situazioni, arriva persino a scandire all’interno della sua narrazione anche i dettagli minimi. Il fatto è (e il doblone, la bara di Quiqueg e il canapo sono altri miraggi) che la Realtà è quella di un viaggio verso cosa? Cos’è questo senso che ricerca Achab? Si vive e si muore, anzi si vive per poi morire. Non è questo il senso della vita ma piuttosto la vita del senso che anche Melville – travestendosi da marinaio baleniere – sta ricercando. Perché si muore? Perché gli esseri umani soffrono? Perché esiste il male? Sul «male» abbiamo un accenno interessante riferito allo stesso Achab: «Tutto ciò che più sconvolge e tormenta la ragione, tutto ciò che rimescola la faccia delle cose, ogni verità che contiene malizia, ogni cosa che schianta i tendini e rapprende il cervello, tutto il sottile demonismo della vita e del pensiero, ogni male per l’insensato Achab era visibilmente personificato e fatto praticamente raggiungibile in Moby Dick ». Questo viaggio malinconico verso la caccia e la cattura di Moby Dick (bianca come il latte) è, in realtà: la corsa affannosa del domandare, dell’interrogare, del chiedere. Malinconica è questa rotta per la domanda che conduce, insensato è il capitano che sta ricercando un senso (alla morte; ma il senso è il fine della navigazione) ma «necessario» è che si compia questo tragitto perché esso racchiude la domanda determinante per ogni uomo: perché si muore?
UN CAPITANO
Ma chi è Moby Dick? Cosa vuole da Achab? Nulla. Proprio nulla. Il secondo ufficiale Starbuck quando tutto sta per volgere all’epilogo grida: «- Oh, Achab (…) non è troppo tardi, neanche adesso, il terzo giorno, per desistere. Guarda! Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu, che lo cerchi da insensato». Il simbolo, la maschera, la bara, il talismano lo Zodiaco, il muro non vuole niente – Melville sembra quasi dire: la morte non vuole nulla da noi siamo noi che, invece, le facciamo mille domande. Ma la citazione precedente va messa appaiata a quest’altra: «E’ poco probabile che questa monomania cominciasse in lui nel preciso istante della sua mutilazione fisica». E’ una domanda che c’è da sempre – che accompagna l’uomo da sempre; che accompagna Achab da sempre. E se è vero che la balena è «eterna» – come il «ricordo» dei «suoi» era eterno in Emanuele Severino – allora abbiamo un sogno, un progetto, un intento da una parte (uccidere il male, uccidere la balena, guardare cosa c’è dietro la «maschera», oltre il «muro» dei prigionieri, dopo che sono state levate le «catene» nella «caverna» e le «ombre» (un’altra «maschera») si sono rivelate qualcosa di reale). Questo progetto è l’intento di un capitano: «Con le sue tre lance sfondate intorno e uomini e remi turbinanti nei gorghi, un capitano, afferrando dalla coda spaccata il coltello della lenza, s’era lanciato sulla balena come un duellista dell’Arkansas sull’avversario; ciecamente tentando con una lama di sei pollici di raggiungere la vitalità, profonda una tesa, del mostro. Quel capitano era Achab. E fu allora che, passandogli sotto di colpo la sua mandibola falcata, Moby Dick gli aveva falciato la gamba come un mietitore fa di uno stelo d’erba in un campo. Nessun turco dal turbante, nessun prezzolato veneziano o malese avrebbe potuto colpirlo con più apparente malvagità. Poco c’era quindi da dubitare che sempre, fin dal giorno di quell’incontro quasi fatale, Achab avesse nutrito un feroce desiderio di vendetta, tanto più accanito dacché nella sua insensata morbosità era infine giunto a identificare con Moby Dick non solo tutti i suoi mali fisici ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale». Il «libro dei libri» (il libro che combina il meglio di tutti gli altri libri) è un romanzo nel quale tutti i miraggi visitati da Achab («quel capitano») lo conducono a un incontro spirituale e mistico con la Realtà. Che è quella Realtà che stava dietro al miraggio. Ma poi che cos’era questo miraggio? Un sogno di malvagità, un incubo proveniente dal male, il terrore che viene dal mare.
IL TALISMANO
Ma il bianco, si è detto, è un colore «elusivo»: gli dai la «caccia» (magari nell’Oceano Pacifico) ma quello ti sfugge, sta da un’altra parte, è già volato via. Così è di tutti i miraggi: quando ci arrivi non ci sono più. Così è di Moby Dick: quando la vuoi catturare essa estrapola una giravolta e ti viene incontro. Ti da una cornata. E allora questo «incontro spirituale e mistico» (quasi come quello di Erasmo da Rotterdam con la «follia») può essere portato avanti solo da una malinconica, insensata rotta che conduce alla fine solo a un grande punto interrogativo.
[disegno di Mark Ashkenazi]