Tolstoj, la guerra e la pace
CAPITOLO 1. Fatti e sentimenti.
«Elèna Vasílievna, che non ha mai amato nulla all’infuori del proprio corpo ed è una delle più sciocche donne del mondo, – pensava Pierre, – sembra alla gente l’apice dell’intelligenza e della finezza e tutti si inchinano davanti a lei. Napoleone Bonaparte era disprezzato da tutti finché era grande e da che era diventato un miserabile commediante l’imperatore Francesco fa di tutto per dargli la figlia come concubina. Gli spagnoli innalzano preghiere a Dio per mezzo del clero cattolico in ringraziamento di aver vinto i francesi il 14 giugno, e i francesi innalzano preghiere per mezzo dello stesso clero cattolico per aver vinto il 14 giugno gli spagnoli. I miei fratelli massoni giurano sul sangue di essere sempre pronti a sacrificarsi per il prossimo, ma non dànno neppure un rublo alla colletta per i poveri, mettono su l’Astrea contro i cercatori della Manna celeste e brigano per ottenere il vero Tappeto Scozzese e un atto del quale non sa il significato neppure chi l’ha scritto e che non serve a nessuno. Tutti noi professiamo la legge cristiana del perdono delle offese e dell’amore per il prossimo, legge in seguito alla quale abbiamo elevato a Mosca quaranta volte quaranta chiese, e ieri hanno frustato a morte un uomo ch’era fuggito, e un ministro di questa stessa legge di amore e di perdono, un sacerdote, ha dato la croce da baciare a quel soldato prima del supplizio». «La locomotiva cammina. Si domanda: come si muove? Un contadino dice: è il diavolo che la muove. Un altro dice che la locomotiva cammina perché le sue ruote si muovono. Un terzo afferma che la causa del moto consiste nel fumo, portato via dal vento. Nulla si può obiettare al contadino. Per confutarlo bisognerebbe che gli si provasse che il diavolo non esiste o che un altro contadino gli spiegasse che non è il diavolo, ma un tedesco che fa muovere la locomotiva. Soltanto allora, da queste contraddizioni, essi vedrebbero che nessuno dei due ha ragione. Ma quello che dice che la causa è il moto delle ruote si contraddice da sé, poiché se entra nella via dell’analisi, deve procedere sempre più oltre: deve spiegare la causa del moto e delle ruote. E finché non giunge all’ultima causa del moto della locomotiva, al vapore compresso nella caldaia, non avrà il diritto di fermarsi nella ricerca della causa. Quello invece che spiegasse il moto della locomotiva col fumo portato indietro dal vento, osservando che la spiegazione del moto per mezzo delle ruote non ce ne rivela la causa, ha preso il primo indizio che c’è presentato e l’ha fatto passare, per parte sua, come causa. L’unico concetto che può spiegare il moto della locomotiva è il concetto di una forza uguale al moto visibile».
CAPITOLO 2. Stati d’animo
Guerra e pace (traduzione di Enrichetta Carafa d’Andria, con un saggio di Thomas Mann, Prefazione di Leone Ginzburg, Vol. I, Einaudi, Torino, 1990 e Vol. II, Einaudi, Torino, 1990) di Lev Tolstòj si aggira attorno ad alcuni assi teorici ben distinguibili e altrettanto bene delineati. Se è vero che la guerra sono i fatti e che la pace (entrambe del titolo) sono i sentimenti si ha un alternarsi di situazioni/circostanze – dai salotti buoni di Mosca e Pietroburgo ai campi di battaglia dal 1805 al 1812 – che vedono sostanzialmente fronteggiarsi Russia e Francia, in alcuni frangenti pure alleate – che fanno brillare nella fantasia del grande autore russo la contrapposizione fra mondo storico (la guerra, i fatti) e mondo umano (la pace, i sentimenti). Ma Tolstòj come non è affatto buon psicologo così non è per nulla valente storico (o romanziere storico): tra l’altro viene in mente a lettura finita quale dovesse essere l’accoglienza di un simile romanzo in territorio francese visti i giudizi a volte sprezzanti non solo su Napoleone e Murat ma anche sulla Francia stessa … Fatti e sentimenti si diceva, che poi un realismo nostrano potrebbe enucleare come il rapporto tra mondo esterno e io (o mente, o soggetto, o intelligenza, o osservatore – direbbe la scienza). Esiste una conciliazione possibile tra le due cose? E Tolstòj sta veramente cercando una simile conciliazione? Si è anche detto che sono presenti nel romanzo alcuni «assi teorici»: il problema della monade (con annessa armonia prestabilita), il problema del meccanicismo (con annessa Provvidenza), la presenza di alcuni simboli, lo scorrere tranquillo della «solita» vita nei salotti di Pietroburgo e Mosca ma anche fra gli eserciti prima del momento della battaglia; ma soprattutto centrale è il seguente «asse»: il succedersi e l’alternarsi di diversi stati d’animo nella testa e nel cuore di alcuni personaggi. La storia della quale parla il romanzo è presto detta: ci sono alcune famiglie particolari, quella del principe Vasilij (che ha tre figli: Hippolyte, Hélène e Anatole), quella del vecchio strambo principe Bolkonskij (i cui figli sono i principe Andréj e la giovane Marja), c’è quella del vecchio malandato e ammalato conte Bezúkov che semina i figli nel mondo perché è del mondo che sono figli e che ne ha uno in particolare, Pierre (figlio naturale) al quale ha deciso di lasciare tutto il suo patrimonio e c’è la famigerata famiglia Rostòv che prevede un conte (paredro, uomo di casa, cavalier servente), una contessa e quattro figli (in realtà in totale sono 12); l’incolore Vejra, l’avventuroso Nikolàj, la bella (ma insulsa) Natăsa e il giovane Petja. C’è pure una «cugina»: Sonja. Altri personaggi, in ordine sparso, si dividono tra personaggi realmente esistiti (su tutti svetta Kutúzov) e personaggi di varia umanità: Anna Pàvlovna e suo figlio Borís, la «gente di Dio» della principessa Marja, Denísov (che nel corso del romanzo mentre tutti quanti si dibattono tra fatti e sentimenti scala tutti i gradi dell’esercito) e Dolòchov (dapprima degradato, poi invischiato in una triste storia di «tradimento» con Hélène, in quel momento moglie di Pierre, poi sfidato e ferito a duello da Pierre eccetera). Ma paradossalmente non sono tanto importanti questi personaggi e neppure la storia stessa che racconta il romanzo e neppure le storie nelle quali sono invischiati gli agenti dei fatti e dei sentimenti. Si sa che Napoleone vince ad Austerlitz e poi (non si capisce bene, a dire la verità ) a Borodinò forse vince (militarmente) ma forse perde (a livello del «movimento» incendiario del grande popolo russo), Pierre sposa Hélène, lei lo tradisce, Hèlène vuole sposare un altro uomo, Pierre si invaghisce di Natăsa, la sposa, ha dei figli.
Natăsa stessa passa per amori e amorazzi: dapprima Borís, poi Denísov (che chiede la sua mano), poi Andréj (che ama ma alla quale non rimane fedele durante l’anno che lui le ha chiesto – su ordine del vecchio strambo padre . prima di tornare dal fronte), quindi Pierre. Marja vive segregata nel dolce amore (molto simile a un incesto) del vecchio padre che solo in punto di morte si rende conto di averle «tarpato le ali»: l’ha sempre voluta tutta per sé; Marja si dedica ai poveracci (ma non c’è socialismo in Tolstoj: solo paternalismo) e poi, alla fine, alla morte dello stravagante genitore si innamora di Nikolàj – il conte Rostòv, chiamato quasi sempre solo con il cognome da Tolstoj: il quale (Rostòv, non Tolstoj) passa da una non meglio definita ricerca di successo personale e affermazione sociale alla cura delle proprietà (e a pagare i debiti del padre) rispetto alla quale scopre la figura e l’importanza del «contadino». No la trama davvero non ci aiuta: ci aiuta piuttosto Rostòv. Anche lui come Pierre e Andréj attraversa – lungo la storia – l’avvicendarsi di diversi «stati d’animo». Tolstoj (e forse in questo sta la sua grandezza) non è un pittore di sentimenti o di emozioni e nemmeno un lucido analista delle cose in forza della razionalità; è un descrittore attento e partecipe di stato d’animo. La forza della vita…
CAPITOLO 3. Meccanico
Pierre è il personaggio più riuscito del romanzo. Nel suo velleitarismo e nella sua parabola personale e pubblica allo stesso tempo, si rinvengono i tratti della modernità. Nessun altro personaggio, neppure Andréj, raggiunge queste vette. Pierre, «eroe per caso», transita lungo diversi stati d’animo. Dapprima egli non sa che fare della sua vita, tutto il suo tempo e tutte le cose che può fare equivalgono a nulla. Non è un nichilista; è un perdigiorno. Poi riceve una ricca eredità, si fidanza (o meglio: «lo» fidanza il principe Vasilij), ma tutto per lui è «meccanico»: egli infatti pensa «Tutto questo doveva andare così e non poteva andare altrimenti, (…) perciò è inutile domandare se è bene o male. È bene perché è deciso e non c’è più il dubbio tormentoso di prima»; poi apprende la «fratellanza» di tutti gli uomini grazie alla massoneria; poi continua a dire al Signore «Sia fatta la volontà tua!»; grazie a stranissimi e complicatissimi calcoli cabalistici si convince di essere lui l’uomo che deve uccidere Napoleone, dopo avere scampato l’esecuzione capitale (alla quale era stato condotto dal suo essere diventato prigioniero dei francesi): «pareva che nella sua anima fosse stata strappata via a un tratto la molla che sorreggeva e animava tutto, e che ogni cosa crollasse in un mucchio di assurdo sudiciume. In lui, benché non se ne rendesse conto, era venuta meno la fede nell’ordine universale, nell’umanità, nella sua anima e in Dio. Questo stato Pierre lo aveva già sperimentato altra volta, ma mai con tanta forza come ora. Prima, quando a Pierre venivano dubbi di questa specie, la sorgente di questi dubbi era la sua propria colpa. E nel più profondo dell’anima Pierre sentiva allora che la salvezza contro quella disperazione e quei dubbi era lui stesso. Ma ora sentiva che non la sua colpa era la ragione che il mondo ai suoi occhi precipitasse e rimanessero soltanto delle rovine prive di senso. Sentiva che non era in suo potere tornare ad aver fede nella vita». Infine Pierre ottiene la «calma»; nelle parole di Tolstoj: «Lungamente nella sua vita aveva cercato da varie parti quella tranquillità e quell’accordo con sé stesso che tanto l’avevano colpito nei soldati nella battaglia di Borodinó; li aveva cercati nella filantropia, , nella massoneria, nelle distrazioni della vita mondana, nel vino, in un eroico atto di abnegazione, nel suo romantico amore per Natasă, li aveva cercati attraverso il pensiero, e tutte quelle ricerche e quei tentativi l’avevano sempre ingannato. E, senza pensarci, aveva ottenuto questa calma e questo accordo con sé stesso soltanto attraverso il terrore della morte, attraverso le privazioni, attraverso ciò che aveva compreso in Karatàjev». Parimenti il principe Andréj, personaggio centrale ma non perfettamente riuscito – come si diceva -, attraversa varie «fasi». Andréj è macinato e macerato dal suo sentimento di inseguire la «gloria»; non è felice; ha sposato Liza e si sente un «idiota da salotto»: dopo una seduta del «consiglio di guerra», Andrej pensa: « “Già, e poi? – dice di nuovo l’altra voce: – E poi, se prima non sarai dieci volte ferito, ucciso o ingannato; ebbene, e poi?” “Ebbene, e poi … – risponde a se stesso il principe Andréj: io non so che cosa accadrà poi, non voglio e non posso saperlo; ma se voglio questo, se voglio la gloria, se voglio essere noto alla gente, non sono colpevole di voler questo, di non vivere che per questo. Sì, solo per questo! Non lo dirò mai a nessuno,, ma, Dio mio! Che debbo fare se nulla mi è caro fuorché la gloria e l’amore della gente? La morte, le ferite, la perdita della famiglia, nulla mi fa paura. E per quanto care e simpatiche mi siano molte persone – mio padre, mia sorella, mia moglie, le persone a me più care – io le darei immediatamente tutte, per terribile e innaturale che ciò possa parere, per un minuto solo di gloria, per essere amato da uomini che non conosco e non conoscerò, per amore di tutta questa gente”». Il non essere «riuscito» del personaggio di Andréj sta nella successione abbastanza stereotipata dei suoi stati d’animo (che gli derivano tutti da cose che gli accadono nella vita). Infatti, dopo questo, egli passa a un sentimento che gli rivela la vanità di tutto … E infine rivuole la gloria e l’amore … Per giungere a una felicità che «Ha che fare con il Vangelo». «Sì, l’amore, – pensava egli di nuovo con assoluta chiarezza – ma non quell’amore che ama per qualche cosa, con qualche scopo o per qualche ragione, ma quell’amore che ho provato per la prima volta quando, moribondo, vidi il mio nemico e pure l’amai. Ho provato quel sentimento d’amore che è l’essenza stessa dell’anima e che non ha bisogno di oggetto. E anche ora provo questo sentimento benedetto. Amare il prossimo, amare i nemici. Amar tutto, amare Dio in tutte le sue manifestazioni. Una creatura cara si può amarla di amore umano, ma soltanto un nemico si può amarlo di amore divino. E perciò provavo una gioia così grande sentendo di amare quell’uomo. Che ne è accaduto? E’ vivo? … Amando di amore umano, si può dall’amore passare all’odio, ma l’amore divino non può mutare. E’ l’essenza dell’anima. E questa gente ho odiata nella mia vita! Ma di tutte queste persone nessuna ho più amata e più odiata di lei». Ma esistono alche altri «elementi» nel romanzo che sono notevoli.
CAPITOLO 4. Altri elementi: simboli, realismo, e fatti senza una causa e monadi e movimento
Guerra e pace è innervato da diversi simboli. In ordine di apparizione: un orso (legato alle spalle di un commissario), un portafogli di mosaico, il cielo (sopra Andréj e non Sopra Berlino), la cometa, la mano (di Rostóv), gli stivali di Napoleone, Matrjoška, la lepre, Dochtúrov. Bella è la descrizione della cometa: «Quasi a metà di quel cielo, sopra il corso Precísttenskij, circondata, avvolta da tutte le parti di stelle, ma distinguendosi da tutte per la sua vicinanza alla terra, la sua luce bianca e la lunga coda levata in alto, c’era l’enorme luminosa cometa del 1812, quella stessa cometa che annunziava, come dicevano, ogni sorta di sventure e la fine del mondo. Ma in Pierre questa splendida stella, con la sua lunga coda raggiante, non risvegliava nessun senso di paura. Al contrario, Pierre con gli occhi umidi di lacrime, guardava quella stella lucente che, dopo aver percorso con indicibile rapidità spazi incommensurabili secondo una linea parabolica, a un tratto, come una freccia che si affonda nella terra, pareva essersi infissa in quel punto da essa scelta nel cielo nero ed essersi fermata sollevando energicamente la coda, scintillando e giocando con la sua bianca luce fra le innumerevoli altre stelle sfavillanti. A Pierre pareva che quella stella rispondesse pienamente a ciò che era nella sua anima, raddolcita e fortificata, che si schiudeva a una nuova vita». Tutti questi simboli rappresentano l’intrusione dell’ideale nel reale e, nello stesso tempo, testimoniano l’avvento delle monadi. L’universo di Guerra e pace è un universo monadico. Tolstoj scrive: «- Ecco, vedrai mia sorella , al principessina Marja – con lei t’intenderai , – disse. – Forse tu hai ragione per te, – seguitò subito dopo un poco di silenzio: – ma ciascuno vive a modo suo: tu hai vissuto per te e dici che con questo per poco non hai rovinato la tua vita e hai conosciuto la felicità solo quando ti sei messo a vivere per gli altri. E io ho provato il contrario. Io ho vissuto per la gloria. (E che è poi la gloria? E’ lo stesso amore verso gli altri, il desiderio di fare qualcosa per loro, il desiderio delle loro lodi). Così ho vissuto per gli altri e non ho quasi rovinato, ma rovinato totalmente l mia vita. E sono qui tranquillo da quando vivo per me solo». Inoltre: «A Pierre sembrava strano vedere quella folla tranquilla, indifferente di persone, che non sapevano ciò che accadeva dentro l’anima sua». E ancora: «Ci sembra così soltanto perché nel passato noi non vediamo che l’interesse storico generale di un’epoca, e non vediamo tutti quegli interessi umani, particolari che avevano le persone. Invece nella realtà questi interessi personali del momento sono a tal punto più importanti dell’interesse generale che dentro ad essi non si sente mai (anzi, non si sente affatto) la presenza di questo interesse generale. La maggior parte della gente in quel tempo non stava a guardare all’andamento generale delle cose, ma era guidata soltanto dagli interessi privati del momento. E proprio queste persone erano i più efficaci attori degli avvenimenti di allora». «Le era penoso, che lo stato d’animo di quanti la circondavano, fosse così lontano da ciò che era nell’anima sua»; gli esseri umani sono monadi.
Ma dove ci sono monadi c’è sempre un «armonia prestabilita»: che è rappresentata da quella che Tolstoj (ma anche Alessandro Manzoni) chiama la «Provvidenza»: il senso meccanico del tutto; abbandonarsi alle circostanze, accettare il proprio destino; rendersi conto che tutto accade per come deve accadere. Tra Cartesio e Leibiniz, tra il meccanicismo e la monade c’è spazio pure per il realismo; Tolstoj dice: «Ogni volta che io, guardando il mio orologio, vedo che la lancetta si accosta alle dieci, sento che nella chiesa vicina comincia a suonar la messa; ma dal fatto che, ogniqualvolta la lancetta giunge alle dieci, cominciava a sonar la messa, io non ho il diritto di concludere che la posizione della lancetta è la causa del movimento delle campane». Insomma: ci sono i fatti, non le interpretazioni. A questo punto Friedrich Nietzsche si sarebbe del tutto accorto che se il simbolo genera la realtà e se questa si sviluppa (e si avviluppa) nel rapporto soggetto-oggetto, per quanto riguarda gli oggetti (senza «finestre») si tratta di monadi che non comunicano con altre monadi (mentre il «mondo esterno» sono i fatti e i sentimenti (metafisicamente intesi. Tanto più che si parla di Provvidenza) allora il senso del tutto «meccanico» delle cose vuole che – esattamente come nel punto di partenza stesso della filosofia di Nietzsche – il mondo sia dolore, sofferenza, angoscia, morte e delirio. Ecco il «legame» (la «finestra») tra le varie monadi; «Aveva imparato che c’è un limite alla sofferenza e un limite alla libertà e che questo limite è molto prossimo: che l’uomo che soffriva perché nel suo letto di rose c’era un petalo ripiegato soffriva esattamente come soffriva lui ora addormentandosi sulla terra nuda e umida, raffreddandosi da un lato e riscaldandosi dall’altro; che quando calzava i suoi scarpini da ballo troppo stetti, soffriva esattamente come soffriva ora quando camminava coi piedi affatto nudi (le sue calzature erano distrutte da un pezzo) e coperti di piaghe».
Così come la sofferenza accomuna tutte le monadi allo stesso modo ci sono «fatti senza causa» (in questo passaggio del romanzo Tolstoj fa malamente il filosofo della storia e finisce per scrivere una lunga tirata contro la storia, gli storici e quelli che leggono la storia) che sono l’emanazione esatta di quell’«orologio» la cui lancetta segna le «dieci». Apprendiamo, in questo senso, anche particolari inediti (che ci servono per unificare i simboli e la storia realistica che, anche dal punto di vista del linguaggio usato, Tolstoj sta raccontando). Fatti come questo: «Se dalla volontà di Napoleone fosse dipeso di dare o non dare la battaglia di Borodinò e se dalla sua volontà fosse dipeso di impartire questo o quell’ordine, sarebbe evidente che l’infreddatura, avendo un’influenza sulla manifestazione della sua volontà, potrebbe essere la causa della salvezza della Russia e perciò quel cameriere che il 24 dimenticò di dare a Napoleone gli stivali impermeabili sarebbe il salvatore della Russia». La guerra è principalmente «movimento»: masse di uomini che «si muovono», ordini attesi e disattesi, saccheggio, morte, fibrillazione, paura. Lev Tolstoj mette dentro questo romanzo-fiume letteralmente troppe cose.
CAPITOLO 5 e 6. Epiloghi
Dire che questo romanzo è un capolavoro è dire la verità. Mostrare le numerose défaillance di Tolstoj non vuol dire mettere in cattiva luce il suo genio; piuttosto: dare maggiore consistenza al capolavoro. Fatti e Sentimenti (o, se preferite: Guerra e pace) si susseguono lungo una linea coerente. Tutto è meccanico ma c’è spazio per una scelta. In fondo la scelta è sempre compiuta in base a una funzione. Quando si esaurisce la funzione si esaurisce pure la scelta. Quando un personaggio sente che non ha più nulla da dare alla vita ecco che subito dopo muore. Ma se è ancora presente quella funzione allora si può fare come Pierre: scegliere di non soffrire pur vedendo davanti a sé tutte le miserie del mondo; spostare la propria attenzione su qualcosa di ulteriore e di bello. A Pierre: «Quanto più terribile era il futuro, tanto più gli venivano lieti e rassicuranti pensieri, ricordi e immagini, che erano indipendenti dalla situazione nella quale si trovava» e «Spesso faceva meravigliare la gente che incontrava coi suoi sguardi e i suoi sorrisi beati, significativi, che esprimevano un segreto consenso; ma quando capiva che la gente poteva non sapere della sua felicità, la compativa con tutta l’anima e provava il desiderio di spiegarle in qualche modo che tutto ciò che la occupava era un’assoluta sciocchezza e insulsaggine che non meritava attenzione». Non è la virtù del saggio: è una scelta deliberata: tra fatti (guerra) e sentimenti (pace) – anche se la vita è meccanica; se la storia si muove per moventi «inconsci», anche se tutto è simbolo della realtà ed anche se è difficile ricercare le cause della storia non solo perché forse non ci sono le cause ma probabilmente anche perché non c’è la storia – Pierre sceglie i sentimenti. La pace, la fratellanza, l’amore universale, l’amore della sua Nataša. Si può vivere anche così. E forse non è nemmeno un cattivo modo di vivere. Un po’ come chiudere gli occhi, un po’ come dormire, un po’ come credere che tutto in qualche modo si risolva.
Che non ci abbia voluto dire proprio questo Tolstoj?