Paolo Miorandi, NANNETTI LA POLVERE DELLE PAROLE, Exorma Edizioni 2022, pag. 168, € 16,00, fotografie di Francesco Pernigo.
Lo ha scritto in quindici anni il suo libro, Oreste Ferdinando Nannetti, sulle pareti dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra, dov’era arrivato nel ’59 dopo essere passato da altri istituti. Lo ha inciso a lettere squadrate, senza curve, solo linee e spigoli, con la fibbia del gilet, la sua penna, sulle pareti del padiglione Ferri. Rimaneva a giornate lì appiccicato, e se qualche internato sostava immobile a sguardo vuoto su una panca davanti al muro, Nannetti gli scriveva intorno. All’infermiere Aldo Trafeli che gli aveva chiesto che cosa scrivesse, lui spiegava “quegli strani schemi, simboli, numeri, figure geometriche, elenchi di pianeti e minerali”. Nella testa di Nannetti tutto aveva una logica, e la sua mano, lui diceva, era “un’antenna, loro mi parlano per via elettromagnetica catodica e le parole mi entrano dalla mano…le mie dita sono tubi d’antenna”.
Il Trafeli, dopo la chiusura del manicomio, si è fatto mettere sul computer le foto di quelle pareti prima che i calcinacci cominciassero a cadere, ed ha trascritto tutto, lettera dopo lettera, parola dopo parola, unico traduttore del libro che Nannetti ha scritto su quel muro.
Paolo Miorandi ha creato un percorso nelle parole e nella vita di Nannetti, ha visitato l’ex ospedale in rovina dove il silenzio fa paura e gli spazi sembrano echeggiare di presenze: “mi sembra di riconoscere ancora il segno lasciato dal continuo strofinio di suole e di piedi nudi”. Lì sono lasciati a muffire tutti i fascicoli con i documenti di chi vi è passato, le cui “tracce verranno cancellate come il vento quando spazza via la sabbia sulla riva”.
Dal paziente lavoro di trascrizione del muro Miorandi ha tratto le parole di Nannetti che ha mescolato alle sue, lavorando con la sua immaginazione sui racconti relativi a fatti, persone e situazioni.
Ne risulta un narrare senza interruzioni dove le parole del Trafeli che guida e spiega si travasano all’improvviso in quelle del folle e poi negli interventi dell’autore, carichi di umana pietas. Il procedere di Miorandi ha la musicalità della poesia e stempera l’orrore del quotidiano, con le sue regole, le fasce di contenzione per gli agitati, le celle, l’elettroshock, la spersonalizzazione.
Ricostruisce la vita di quella cittadella autonoma, il manicomio, che ha visto fino a cinquemilasettecentocinquanta internati ed un alto numero di personale -un migliaio- che vi ha trovato la sicurezza economica per tutto il novecento, dopo il crollo della domanda dei manufatti di alabastro. Gente robusta, che doveva abituarsi subito alla vista della degradazione umana e della sofferenza.
“I manicomi, scrive Miorandi, non va dimenticato, erano, e sono, laddove ancora esistono, soprattutto muri, reti metalliche, cancelli e porte chiuse da chiavi raccolte in grandi mazzi, ora sostituite da più comode schede magnetiche…segnavano l’esistenza di una faglia che tagliava a metà lo sguardo dei cittadini: da una parte della fenditura ciò che sembrava chiaro, ragionevole, comprensibile, giusto, dall’altra parte l’oscuro, l’inquietante, il comunque fuori posto. Non c’erano solo psicotici gravi, paranoici, dementi all’ultimo stadio, ma una varia umanità considerata pericolosa per l’ordine e il buon sonno della città, donne e uomini che, come recitava la sentenza che ne sanciva l’internamento, costituivano un pericolo per sé e per gli altri o erano di pubblico scandalo”.
Il lettore è trascinato dentro un argomentare folle, carico di allucinazioni, mentre il ritmo del narrare si avvicina sempre più a delirio: “se loro non mi parlano arrivano le ombre, entrano nella camerata e si accostano al mio letto, gli dico, andate via, ma non vanno via, alzo la mano, la sposto e la ruoto per migliorare la ricezione, ma non sento niente, dico, uno, due, tre, qui Forte Forestal, ricevente attivata, parlate, ma non è in corso nessuna trasmissione, loro non parlano, ci sono solo le ombre”.
Ma il muro del Ferri è per Nannetti “ciò che sopravvive di un altro tempo e di un’altra vita, e non importa che sia una vita non vissuta, talvolta vissuta soltanto per sentito dire, raccolta da stralci di riviste illustrate…”, per Ferdinando Oreste Nannetti è la sopravvivenza nella follia. Ed i medici che lo vedono attaccato al muro lo lasciano fare, perché sta bene così.