Lorenzo Greco, Un’altra giovinezza veniva dal mare, Vittoria Iguazu Editora, Livorno 2018
Conosco Lorenzo Greco da tempi lontanissimi. Siamo stati allievi della Facoltà di Lettere e Filosofia in quel di Pisa negli stessi anni, avendo tratti caratteriali comuni che, solo dopo, da adulti, ci siamo riconosciuti. Per questa confidenza affettuosa, ho avuto modo di leggere, e anche di presentare al pubblico volterrano di “Ultima Frontiera”, i suoi primi lavori: Tecniche dell’adulterio (Camunia) e Il confessore di Cavour (Manni), finalista allo Strega nel 2011.
Romanzi di grande costruzione e carattere che hanno molto a che fare con gli abissi che ogni essere vivente possiede e nei quali è difficilissimo scendere per trovare quello che si cerca.
Questo nuovo libro, Un’altra giovinezza veniva dal mare (il titolo è ripreso dal verso di congedo di una poesia di Franco Antonicelli, a Giorgio Caproni) è un romanzo che potremmo definire autobiografico, segno che lo scrittore è arrivato alla conclusione che si devono fare i conti col rimosso e che giudicare spetta sempre ai protagonisti, a coloro che CI sono stati. Non è un caso che progressivamente sono tornati sui luoghi delle imprese, della gioia, del brivido incendiario o delle militanze frustrate e vissute dentro le polverose “apoteche” dei partiti: Mario Capanna, Franco Petroni, Romano Luperini tanto per fare solo alcuni nomi di un elenco, ahimè, visti alcuni esiti, anche troppo lungo. Luigi Russo, nel 1946, su “Belfagor”, non a caso, minacciava bonariamente i suoi allievi ex partigiani che avrebbe svergognato criticamente quelli che, scrivendo della loro “guerra di ragazzi”, fossero finiti per cadere nella retorica e nella falsità oratoriale mutuate proprio dal regime che avevano contribuito a sconfiggere.
Lorenzo Greco ha avuto il grande merito di raccontare la storia di una generazione, quella del sessantotto, un anno che ne contiene almeno cinque, dal 1966 al 1971, da un’angolazione decisamente antiretorica. Il suo personaggio, voce narrante e protagonista assoluto, è il contrario delle tante figurine in vena di recite e di superficialità che hanno attraversato le praterie della contestazione. I molti “fighetti” garruli e dal linguaggio colto, musicato con timbro quasi sempre milanese, indipendentemente dal dolce luogo natio. Parlo degli spantalonanti per le scale di Facoltà e di biblioteche dalla mimica inequivocabile: la spalla sinistra leggermente dominata dalla destra, il ciuffo spostato dalla fronte con ritmi orientati alla velocità dell’eloquio e la pericolosa tendenza a far notare discutibili predisposizioni al martirio. No, il protagonista di questa storia è un ragazzo che si è formato nel classico “scrigno” di una piccola borghesia piena di pregiudizi ma anche di valori ai quali tenere e nei quali riconoscere la propria identità. Inoltre caratterizza molto bene i tre “luoghi” di cui era fatto il mondo inquieto di quegli anni: gli apparati del partito, una organizzazione integralista, aggressiva e anche difficile a sciogliere riserve e sospetti; la borghesia intellettuale, coraggiosa in genere, capace di sacrificio e di tenuta morale, ma anche compiaciuta, aristocratica, desiderosa di essere corteggiata e ammirata; il popolo sempre sulla linea sottilissima che divide il riscatto dal servilismo. Tutto accade a Livorno, città bella accesa sanguigna, nuova di zecca tutta da “dipingere”, come il grande Fattori consigliava ai suoi amici, ma anche provinciale, periferica, e amata tanto da raccontarla attraverso un Cicerone d’eccezione che poi è il mio e nostro Caproni.
Ma che accade? Succede che, alla sua morte, il fascinoso Franco Antonicelli, aristocratico, elegantissimo, liberale, al confino per tre anni, legato al giellismo torinese, uomo della Resistenza, dirigente del CLNAI, approdato dopo il luglio Sessanta come indipendente alla sinistra socialista e comunista, lascia le sue carte e la sua biblioteca ai portuali labronici presso la casa dei quali il giovane protagonista, con altri ragazzi, più o meno comunisti (trotskisti, ortodossi, movimentisti e cattolici legati a don Nesi, un sacerdote che io ho molto amato, legato a Testimonianze e a don Milani e padre Balducci), aveva svolto attività di volontariato culturale. Una grande occasione per la città di Livorno come capiscono bene i dirigenti del Partito Comunista e soprattutto Italo, capo della componente più forte e potente dello schieramento proletario livornese: i portuali, i camalli. Lorenzo diviene il responsabile del Fondo, si trasferisce a Torino e si impegna a sottrarre più documenti, rarità bibliografiche possibili contendendole ai temibili concorrenti della città piemontese: dirigenti comunisti, il sindaco Novelli e Norberto Bobbio, decisissimo quest’ultimo a non lasciar partire i gioielli della biblioteca di Antonicelli che egli ben conosceva. Non riuscendoci perché Lorenzo faceva abilmente scomparire le preziosità nei pacchi che venivano scortati nella nervosa Livorno. La vicenda è tutta qui, tra l’alba luminosa di un grandissimo progetto e il suo crepuscolo, tra l’intesa e l’incomprensione per le ragioni che ho detto prima.
Aggiungo che il personaggio autobiografico, vale a dire Lorenzo Greco, mi assomiglia perché ha la mia stessa origine sociale, la medesima timidezza e l’audace sospetto nei confronti di quel mondo, quello dei nostri Maestri, sempre in equilibrio tra boria, compromesso, clientelismo e purezza.
Una cosa, del resto osservata anche dallo scrittore stesso, avrei preferito vedere nel testo i nomi veri anche se molti sono riconoscibili. Avrebbero conferito alla impresa scritturale, qualcosa in più, non all’ auto da fé, ma all’autobiografia, ambizione dichiarata dallo stesso autore.
“Il punto è un altro. Tabucchi una volta ha ricordato che gli era capitato di scrivere autobiografie altrui: un lettore l’aveva infatti accusato di aver raccontato esattamente la sua vita. A me, al contrario, premeva scrivere una sorta di “autoromanzo”, vale a dire episodi che mi pare di aver vissuto in prima persona, e di cui, oltre che autore, sono al tempo stesso narratore e protagonista, che è proprio la condizione dell’autobiografia.”
Sullo stile di Greco solo due parole. Nella sua prosa luminosa e compatta, avvertiamo la presenza degli amori letterari divenuti parte integrante della sua architettura scritturale e l’apertura alle diverse lingue delle tipologie sociali richiamate. Questione di velocità, di toni, di geometrie logiche non di cedimenti caricaturali al vernacolo o alle lingue gergali, quelle della transgrammatica teorizzata dal Contini. Insomma un racconto da respirare, da passeggiare, imparando, fra tante altre cose, come la memoria non produca solo malinconia, ma immaginazione perenne del presente del passato.