Michele Battini, Andai perché ci si crede, Sellerio 2022
Il punto cruciale (metodologico – verrebbe da dire) di questo libro di ricostruzione storico-analitica, dei fatti del 5 maggio 1972 e del conseguente caso giudiziario sulla morte dell’anarchico Franco Serantini, si trova a pagina 143, dove l’autore scrive: “Se il passato è perduto per sempre, la realtà di ciò che è accaduto non è inattingibile. Restituire ciò che è accaduto non significa solamente ‘narrare’, né documenti e testi sono narrazioni e rappresentazioni, bensì fonti che permettono di risalire alla realtà perduta”.
Purtroppo questo presente ci pone di fronte a un pervicace retaggio (quasi sentimentale) di una filosofia del recente passato che continua in certi casi a fare la lotta alla struttura, all’analisi, a ciò che la realtà (anche quella che si può dedurre dalle fonti) pone d’innanzi. Invece, più che mai la ricostruzione storica, senza lo studio e la comparazione di verbali, depistaggi, false testimonianze, forzature processuali, interrogatori stringenti, libere testimonianze e ricordi, lettura dei giornali dell’epoca, non potrebbe che vanificarsi in un’opinione insignificante. Oggi, oltre all’imperante ordine disposto dalla tecnologia nella formazione delle giovani generazioni e nella pratica quotidiana del mondo sviluppato, sembra vigere un desiderio di dematerializzazione costante. Si tende a dematerializzare contenuti, archivi, documenti. E di qui a poco, tramite avatar e multiverso digitale, forse ci si sta muovendo anche verso una “dematerializzazione” della persona.
Non sembri fuori luogo questa notazione sull’attualità, perché il libro sull’anarchico Franco Serantini in definitiva è la testimonianza di un altro tempo, di una storia nazionale che anche l’autore (pur nella costanza e nella volontà di definirla a tutto tondo e consegnarla al futuro) sostiene appartenere a un’epoca che non esiste più, anni luce distante dalla contemporaneità – ma non per questo meno generativa di riflessioni sul rapporto odierno tra Stato e cittadino (non è un caso il riferimento alla vicenda di Stefano Cucchi).
In questo libro si definisce, una volta per tutte, che l’orfano e anarchico Franco Serantini fu picchiato su un lungarno di Pisa dal reparto Celere di Roma il 5 maggio del 1972, che fu tradotto e probabilmente percosso anche durante il tragitto verso la caserma e nella notte in caserma dalle forze dell’ordine e poi abbandonato in una cella del carcere Don Bosco di Pisa, dove il medico non fece il proprio dovere e dove il ragazzo morì il 7 maggio 1972. Il resto fu il tentativo di depistaggio di apparati dello Stato contro la memoria del ventenne. La “sepoltura” del caso fu contrastata soltanto dallo scrupolo di un magistrato pisano (Paolo Funaioli, sostenuto dal pretore Salvatore Senese – cui sono stato legato professionalmente durante il suo servizio di senatore della Repubblica) e dalla denuncia di Lotta Continua.
Certo, ogni testimonianza, come questo libro, è composta anche da narrazioni, ma a questo punto, a cinquanta anni esatti dall’uccisione di Serantini, le notizie indicate qui sopra sono l’esatta ricostruzione dei fatti, per quanto è dato sapere dai dati reali analizzati.
Il volume di riferimento, e il più raffinato, a cui si ispira Michele Battini è Il sovversivo di Corrado Stajano che raccolse circa trenta anni fa, le testimonianze e i verbali disponibili per raccontare, in forma spedita e semplice la storia di Serantini. In questo Andai perché ci si crede abbiamo invece una più acuta analisi di contesto, dovuta senza dubbio alla maggiore distanza di tempo dai fatti raccontati e analizzati, e anche alla possibilità, per il valente e rigoroso storico, di studiare approfonditamente l’archivio privato di Arnaldo Massei, il penalista che curò la difesa di Luciano della Mea e Demetrio Bozzoni, costituitisi parti civili di Serantini.
Ma questo libro è anche, forse, un’autobiografia collettiva scritta attraverso la vita di Franco Serantini che, in quegli anni, rappresentò (almeno a Pisa) un collante umano, prima che ideologico, fortissimo. E certamente anche un’accorata difesa della verità, con le armi impersonali della ricerca storica, da cui ogni tanto trapela un’appartenenza (più che un coinvolgimento) dell’autore, nemmeno troppo velata, che si manifesta a partire dall’esergo di Salvemini, scelto per evocare un sentimento e “aprire le danze” della lettura.
Negli ultimi tre capitoli si ripercorre anche la storia dell’Italia dal dopoguerra a oggi, in una indovinata ed efficace sintesi, espressa massimamente alle pagine 160 e 161.
E il libro è anche un omaggio a una città che molto è stata al centro del dibattito e delle vicende politiche italiane. Pisa è stata nel Medioevo la maggiore potenza militare ed economica “italiana” in tutto il Mediterraneo (più estesa della Serenissima). Soggiogata poi dai fiorentini ha vissuto un suo momento alto tra Otto e Novecento per il tramite del “libero pensiero”. Tanti sono stati gli anarchici, i ribelli, i rivoluzionari che a Pisa hanno studiato o insegnato nelle locali università e che hanno diffuso qui (e da qui altrove) idee e pratiche politiche, fino a quelle extraparlamentari dei gruppi di sinistra radicale degli anni Sessanta del secolo scorso.
In questo contesto il libro di Battini raccoglie i migliori nomi della Pisa dell’epoca e diventa pure compendio piuttosto esaustivo di testi e volumi che hanno messo la città al centro della loro scrittura.