24 Novembre 2024
Words

Il centrodestra ripensa se stesso

Nell’album Radici del 1972, Francesco Guccini stabiliva che “Settembre e il mese del ripensamento”. Con due mesi d’anticipo potremmo dire che per il centro-destra italiano luglio è il “mese del ripensamento”, della riflessione, del bilancio, della speculazione intorno a qualcosa che non torna o che non sembra dover più tornare. Al di là dei non certo esaltanti risultati delle ultime elezioni amministrative, lo stesso Matteo Salvini ha parlato a più riprese di una “assemblea permanente” della Lega, altrove e per tutto il centro-destra definita come “Stati Generali”: costruzione di qualcosa intorno a un pensiero o meglio, una linea guida comune.

Le condizioni generali appaiono sconfortanti: due anni di pandemia, la guerra, l’inflazione all’8%, il lavoro diventato (e non da ora) sempre più povero e precario, l’impotenza dell’intero sistema politico, l’aumento esponenziale delle diseguaglianze (non solo economiche), l’inseguimento – attraverso l’esperienza di governo di Mario Draghi – di una “governabilità” che si vuole sempre più unitaria (almeno negli intenti) ma che nella concreta realtà politica pare polverizzata (l’ultimo “incidente” è consistito nel malcontento del grillino Giuseppe Conte e nella scissione dell’ex grillino Luigi Di Maio, sempre dal M5S), il calo del potere d’acquisto dei salari, i tagli  nella spesa dei cittadini anche nel settore degli alimentari, il prezzo della benzina che è lievitato. E non è finita qui: le due decisioni politiche malcerte sullo Ius Scholae e la cannabis. La congiuntura nella quale si sta muovendo il centro-destra (parallela a quella del centro-sinistra che ventila un nuovo Ulivo, un “campo largo”, una “comunione d’intenti”, magari un’apertura al centro – ammesso che si sappia cosa esso sia e dove sia) è quella di un’ammaccatura che spinge a un radicale ripensamento intorno a una presunta coalizione. Questa presunta coalizione al momento attuale vedrebbe il partito di Giorgia Meloni fare da capofila.

In più, se è vero che l’ascesa politica di Matteo Salvini è iniziata nel 2013, è altresì vero che dieci anni dopo – con le elezioni che ci aspettano nel 2023 – ci si trova di fronte a una legge elettorale che è mutata (siamo passati – attraverso il mai utilizzato Italicum – dal Porcellum al Rosatellum) e di fronte a un panorama globale del tutto inedito: per esempio, si è passati dal bipolarismo del Matterellum, prima, nello stesso 2013, al tripolarismo e adesso – il Rosatellum prevede l’assegnazione del 64% dei seggi in maniera proporzionale e il 36% in termini maggioritari.

Dunque questo centro-destra che, nelle passate elezioni del 2018, è stata la coalizione più votata (con la Lega partito di maggioranza relativo all’interno di quella stessa coalizione) in questa sua “ri-flessione” e in questo suo ripensamento deve fare i conti con almeno due emergenze: la continuazione fino al termine della legislatura del governo Draghi e l’assetto da darsi in relazione alle prossime elezioni politiche. In più – e rispetto al centro-sinistra del momento attuale – questa è una differenza: gli uomini e le donne fedeli alla Meloni, a Salvini e a Berlusconi devono far quadrare i conti con quell’ondata di populismo (Trump, Johnson, Victor Orbán, Jaroslaw Kaczynski in Polonia, e in Italia Grillo e almeno un componente della loro stessa coalizione, cioè Salvini) che nel 2018 sembrava una vera e propria “onda lunga” ma che adesso – a conti fatti – appare in qualche misura più contenuta, ristretta, atomizzata.

Quello che sarebbe necessario (parafrasando una delle tesi di Norberto Bobbio) è proprio una cultura della politica e non una politica della cultura – “la pianificazione della cultura da parte dei politici”. Una vera e propria “cultura della politica” è qualcosa come una cultura attaccata (con un mastice) all’interno della società in cui si vive e addentro» ai problemi che in questa società vi si pongono.

Ma dire questo è dire troppo. La politica, sempre più, si muove nell’ottica della banalità elettoralistica (nella quale oggi la leadership assume un ruolo cruciale) ed è – in alcuni tratti anche in maniera drammatica – staccata da quella che siamo soliti definire una qualche cultura. Qui non è in ballo leggere libri o parlare bene, è in questione (in questo momento “sonnambolico” e drammatico che stiamo vivendo) cercare qualcosa o qualcuno capace – come si dice debba essere l’intellettuale – di assumere il ruolo di guida alla poltica. Per farci uscire dalle secche di una globalizzazione che non sta più funzionando. Per costituire un’alternativa al vuoto pneumatico dei telefonini, dei tablet e dei video virali.

Dal canto suo, il centro-destra, se non si imbarca in derive demagogiche, ultraconservatrici o lontane dai tempi che stiamo vivendo, ha dalla sua la buona base del pensiero liberale. Ma certo con la Meloni a capo del primo partito della possibile futura coalizione tutto ciò appare lontano.

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.