Stevenson/Kant, Jekyll/Hyde: interposta persona
Robert Louis Stevenson scrive, in questo suo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Il trafugatore di salme. Un capitolo sui sogni (A cura di Attilio Brilli, Con uno scritto di Joyce Carol Oates, Oscar Mondadori, 1983): «Più ci penso e più sono spinto a chiedere: chi sono questi esserini? Essi sono dei parenti stretti del sognatore, senza dubbio: condividono le sue preoccupazioni finanziarie e tengono d’occhio il suo conto in banca; con ogni evidenza essi condividono il suo tirocinio; hanno imparato come lui a costruire l’impalcatura di una storia e a graduare l’emozione in ordine progressivo; solo penso che abbiano maggior talento. E una cosa è fuori di dubbio: essi sono in grado di raccontargli una storia pezzo per pezzo, pur tenendolo all’oscuro di come andrà a finire».
A parte questo “doppio” (gli esserini – o i folletti – da una parte, ed “ego cosciente” dall’altra) nel romanzo che dà il titolo al libro è presente un altra radicata doppiezza esistenziale – altrimenti definita da Stevenson come «i due versanti» o anche «i due domini del bene e del male» o ancora con l’espressione «l’uomo è duplice» -, quella tra Henry e Edward (ovvero tra Jekyll e Hyde, tra un dottore e un signore, tra Henry Jekyll ed Edward Hyde).
Nel racconto Il trafugatore di salme è presente anche un’altra scissione: quella, nella stessa persona, del doppio ruolo di: medico e trafugatore. Tutti questi tagli (e crasi) si possono far risalire, naturalmente, all’atmosfera conformista e mistica dell’epoca vittoriana inglese (borghese quant’altre mai) rispetto al sogno faustiano di una scienza oramai veramente libera di remore e preoccupazioni e che sia pronta ormai a inseguire il sogno della ricerca della verità (astratta) anche al di là della congiuntura stessa nella quale vivono gli esseri umani: la loro vita e la loro morte, tanto per intenderci … In Un capitolo sui sogni appare – come si evince già dal titolo – la contrapposizione (e la divisione) tra “veglia” e “sogno”. E lo stesso Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde – per esplicita ammissione dell’autore – sarebbe, esso stesso, nato da un sogno, il quale – passando, poi, per la macchina della scrittura – si è tramutato in un incubo. Stevenson a un certo punto scrive: «A me non resta che formulare la rischiosa ipotesi secondo la quale l’uomo sarà conosciuto come un sistema di entità multiformi, incongrue e incongruenti». Ma per raccontare questo Strano caso, Robert Louis Stevenson ha bisogno di documenti: il racconto di un certo Enfield, un testamento olografo, un assegno della banca Coutts, la testimonianza di una cameriera che riconosce nell’assassino del deputato Sir Davens Carver lo stesso Edward Hyde, alcune missive che Jekyll consegna a Gabriel John Utterson, doppio legale: di Jekyll e di Carver, la perizia improvvisata di un appassionato di grafologia (riguardo la doppia scrittura di Jekyll e di Hyde), una busta che deve essere recapitata allo stesso Utterson, contenente un altro testamento e un memoriale del dottor Hastie Lanyon e la relazione di Henry Jekyll sul proprio caso. Cosa sono tutti questi documenti? Sembra quasi che Stevenson abbia bisogno di un filtro, di uno schermo, di uno specchio (ce n’è uno “a cavalletto” nello studio del dottor Jekyll), di un teatro anatomico (o laboratorio o sala d’anatomia o sala anatomica – che tra l’altro, torna in tutti e tre i testi presenti in questo libro) nel quale e attraverso il quale mettere in scena una rappresentazione che, nella sua essenza, però rimane nel vuoto. Stevenson si serve dei documenti per rappresentare la storia di Jekyll/Hyde lungo il crinale di un passaggio dal fenomeno al noumeno kantiano. Si tratta, infatti, di testimonianze di altri (le quali, ovviamente: sono pur sempre fatti) che conducono alla ricostruzione di un romanzo che, però, il protagonista non racconta in prima persona, sta invece nel buio, non è inquadrato dalla telecamera; si trova nel vuoto. Dal «fenomeno» kantiano (il modo come le cose appaiono), rintracciato attraverso diversi fatti, si passa ad altri fatti indubitabili (Hyde che schiaccia una bambina per strada, Hyde che uccide il deputato, la presenza di una droga o medicina o pozione capace di rendere “reale” la scissione della quale Jekyll soffre anche da prima che i suoi studi alchemici e trascendentali lo portino alla scoperta del prodigioso ritrovato) lungo la scomposizione effettuata dal contenuto dell’interpretazione (il fenomeno in sé). Insomma se è vero che il noumeno è inconoscibile – e questo è il vuoto all’interno del quale si trova Jekyll/Hyde – è altresì vero che si può dare un’interpretazione dei fatti: i documenti che utilizza Stevenson, alla fine, non sono altro che il passaggio da fatto a fatto per raccontare una storia per interposta persona. Esattamente come la vita di Jekyll, ma anche quella del dottor K. (del racconto Il trafugatore di salme) e dello stesso Stevenson (nell’autobiografico Un capitolo sui sogni) tutto viene giocato per interposta persona: c’è sempre un “altro” che uccide, che sogna, che profana tombe, che ingerisce pozioni, che fugge, che si suicida, che conversa amabilmente con gli amici.
Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è, dunque, la storia della decomposizione di una personalità: «Ho osservato che quando mi trovavo nelle spoglie di Edward Hyde, nessuno poteva accostarmi senza provare un ribrezzo istintivo, palese. Credo fosse dovuto al fatto che gli esseri che incontriamo sono una mescolanza di bene e di male; solo Hyde, nel novero degli umani, era il male allo stato puro». Stevenson lo dice esplicitamente: «È stato in campo morale e basandomi unicamente sulla mia persona che ho imparato a riconoscere il dualismo intrinseco e primordiale dell’uomo». Siamo dunque di fronte a un apologo morale (anzi a tre: considerando gli altri due testi presenti nel libro) all’interno del quale il bene e il male hanno spazi definiti. Jekyll sente dentro sé una radicata doppiezza esistenziale: nasce Hyde (diverso da lui anche fisicamente), Hyde fa il male, Jekyll vive una vita nella quale «i miei due versanti coesistevano in perfetta buona fede»… Ma fino a un certo punto! «Pertanto ora avevo a disposizione due diverse personalità e due differenti fisionomie: l’uno era malvagità fine a sé stessa, l’altro era il solito Henry Jekyll, incoerente miscuglio che ormai non speravo più di correggere e di migliorare», Hyde reclama i suoi spazi, Jekyll ha sempre meno vita.
La pozione (come lo specchio e il tavolo anatomico, simboli di un orrore in verità un po’ datato nella letteratura se visto con lo sguardo di oggi e anche – nell’economia della scrittura di questi tre testi: riempitivi di quello spazio vuoto nel quale vive Jekyll/Hyde ma solo a livello allegorico, quasi copertura rappresentativa – nella scrittura – di quello che urge ma non si può dire o, forse, non si sa esprimere nella sua crudeltà e spietatezza) riveste il ruolo, ogni volta, di fare da tramite tra le due personalità. Ora ingerendola c’è Jekyll, ora ingerendola c’è Hyde.
E il suicidio finale. Ma sarà morto il dottor Henry Jekyll o il signor Edward Hyde?