15 Novembre 2024
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Alessandra Calanchi, La Terra vista da Marte, Passi di/versi sul Pianeta Rosso, Oakmond Publishing, 2019, pag. 130, € 12,50

Era ancora una bambina Alessandra Calanchi quando l’Apollo 11, il 20 luglio del ’69, sbarcò sulla Luna. L’emozione ha fatto galoppare la fantasia fin da allora. In attesa di un nuovo allunaggio, l’attenzione si è rivolta a Marte, a cui da decenni puntano le sonde di USA, Russia e altre parti del mondo.

Nell’immaginario collettivo il Pianeta Rosso -colore dovuto alla presenza dell’ossido di ferro, che ha preso il nome dal dio mitologico e sanguigno della guerra- è sempre stato il simbolo degli alieni, degli extraterrestri lontani sì dalla Terra, ma in cerca di essa, a cui la fantasia e la filmografia possono attribuire gli aspetti e le caratteristiche più originali o temibili.

C’è amarezza in questi versi: “Quanta pena si danno/ I terrestri/per descriverci come il nemico/Quanta invenzione di mostruosità/quanto sperpero di immaginazione/Quanta esibizione di creativa biodiversità/Chiamarci alieni non basterebbe?/Non chiamano così anche i migranti?”

Cospicui sono gli investimenti per la ricerca spaziale, per un ampliamento delle conoscenze sui misteri immensi che circondano il nostro pianeta, quasi in una discutibile speranza di colonizzare lo spazio. “Oggi – scrive la Calanchi nella prefazione – mentre progettiamo di tornarci, sulla Luna, e di costruire colonie sul Pianeta Rosso, preoccupandoci di garantire condizioni di sicurezza per i cosmonauti e le loro famiglie, il Mediterraneo si tinge del sangue delle centinaia di vittime che fuggono da fame, guerra e povertà”.

Con un tono che sembra giocoso, talora con versi rimati e filastrocche, recupera dallo spazio sonde e rover riflettendo sul fatto che: “Dopo aver costruito macchine così perfette/E avere dato loro nomi di valori in cui/evidentemente crediamo/Continuiamo a spedirle in esilio/Prescrivendo loro/Illacrimata sepoltura”.

Mentre sembra esaltare la ricerca scientifica e spaziale, la Calanchi mostra le ferite della nostra società, le incongruenze, l’assurdo, il razzismo dilagante, il male che divora la Terra e gli umani così chiusi nei confronti dei loro simili, così gelosi del proprio benessere – i fortunati – e arroccati nella volontà di salvare i confini.  I marziani sarebbero accetti meglio dei migranti!

“Vengo da Milano/Vesto italiano/Mangio vegano/E non ho mai visto un marziano/ Ma se assomiglia a un afghano/O a un pakistano/O anche solo a un toscano/ non lo voglio a mano”. E ancora: “Da dove vieni, straniero silenzioso?/Non dal porto di Sirte, nel nord della Libia?/Serbi forse l ricordo di carovane e battaglie?/Celi dunque sotto la tunica un’arma letale?/Sei pronto a farti esplodere come una supernova?/O il tuo sguardo racconta piuttosto l’albedo/marziana[…]?

Con tono irrisorio ed amaro condanna il dio della guerra, che “se ne poté andare /indisturbato/libero di fare altri danni”, dopo che Romolo e Remo “Erano nati/Da una sveltina/Fra il dio della guerra e una vergine”. Di danni ne ha fatti davvero e continua a farne!

Mentre procede nell’elenco delle ricerche spaziali e ricostruisce il fascino del Pianeta Rosso, la Calanchi lamenta i danni ambientali, la siccità, il timore che l’umanità stia procedendo verso l’autodistruzione, ma l’attenzione va a quei migranti che non riescono ad ottenere  un permesso di soggiorno, alle madri e ai bambini che muoiono in mare: “Sembra il nome/Di un’astronave marziana/Venuta per invadere la Terra/Potrebbe essere il nome/di una missione spaziale terrestre/Partita per colonizzare Marte/C’è chi dice sia una nave/Piena di terroristi/Venuti per invadere l’Europa/Ma io ho visto donne e bambini/io ho udito canti e sorrisi/ io non ci credo”(Aquarius). Intanto “il nostro Mediterraneo si tinge di sangue/Come il Pianeta Rosso”.

Andare su Marte, investire somme colossali, per che cosa, poi?  Nemmeno Siri, in una conversazione virtuale, sa che cosa rispondere. Teniamoci la nostra Terra, suggeriscono i versi della Calanchi, recuperiamo i danni che le abbiamo fatto, accogliamo chi fugge da luoghi vicini a noi. E lasciamo stare i marziani.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.