Poetica di Luciano Bianciardi
- Lo spazio.
Un giudizio lapidario del bidello Corinto: «Ci sono troppe mezzeseghe in giro, troppi preti, troppi intellettuali» dentro un «mondo» nel quale «Non c’era altro da fare che andarsene a letto, aspettare dormendo il giorno dopo, il lavoro» e «dentro» al quale per chi sa scrivere (ma poi… Scrivere di cosa?) non resta altro da fare che «Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera – bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amore coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle» … In sostanza c’era chi «Pensava che tutti i rapporti, produttivi e umani, dovevano cambiare, mentre poi hanno ricominciato – e forse non avevano mai smesso – a prendere gli operai, senza tante inutili storie, a calci nel culo». Luciano Bianciardi in questa sua Trilogia della rabbia (Il lavoro culturale, L’integrazione, La vita agra, Prefazione di Francesco Piccolo, Feltrinelli, Milano, 2022) si muove in una realtà spazializzata (che poi è una «città», la Grosseto dell’immediato primo dopoguerra) che è la vera protagonista del primo romanzo di questa Trilogia – uscito per «Feltrinelli» nel 1957, «Ripubblicato con aggiunte nel 1964»; invertendo il titolo del primo romanzo con il tema del secondo, è proprio il «lavoro» il protagonista de L’integrazione – edito originariamente da «Bompiani» nel 1960, mentre, infine: è il «tempo» – il «tempo» storico non quello fisico – il leitmotiv de La vita agra – pubblicato da «Rizzoli» nel 1962. Come si vede, fin da subito: siamo in quello scorcio di anni che viene in genere denominato del boom economico. Inserendo il «lavoro» (che, poi, equivale alla «vita», la «concreta vita degli uomini») tra «spazio» e «tempo», Luciano Bianciardi formula un’equazione che ha uno strano risultato: «Lui che mi conosce capì al volo cosa avevo in mente e attaccò una delle sue solute prediche. Prima di tutto mi disse che ero un provinciale. Cosa mi credevo? Che la grande città fosse quel luogo di meraviglie che credevano certi, quelli che amano viaggiare? No, la grande città era proprio così, invece, un posto duro, cattivo, teso, assillato tanta gente che corre, che si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare. “Arrivare dove?” chiesi. “Chi lo sa? A pagare la tratta che scade, a trovare i soldi per concedersi questo dubitabile vantaggio, provinciale anch’esso, di vivere nella grande città. Guardali in faccia: stivati, con gli occhi della febbre, dimentichi di tutto tranne che dei soldi che ci vogliono ogni giorno, e che servono soltanto quanto basta per stare in piedi, per lavorare, trottare ancora, e fare altri soldi. Un giro vizioso. E la tragedia sta proprio nel fatto che di questo loro non si avvedono, che si ritengono privilegiati. Ascoltali, provocali, e sentirai la sicumera di questa gente, solo perché abita nella grande città. Questi sono i ceti medi italiani, avviliti dal padrone, e insieme sollecitati a muoversi nella direzione che fa più comodo al padrone. Neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, e credono che sia questa la vita moderna, la felicità». Strana davvero questa equazione nella quale tra gli anni del cosiddetto «Miracolo economico» (nei quali i redditi da lavoro dipendente, comunque sia, erano passati da 4503 a 8977 miliardi di lire e durante i quali si era registrato un massiccio miglioramento delle condizioni di vita sostenuto dalla crescita dei consumi privati) e lo «spazio» di due «città» tutt’altro che marginali(Grosseto e Milano) se ne viene fiori con un sentimento non di delusione ma di desolazione.
2. Tra Charles Bukowski, Friedrich Nietzsche e Fabrizio De André
Desolato ma non desolante, Luciano Bianciardi (che era nato, appunto, a Grosseto il 14 dicembre 1922) si muove, dopo aver accantonato le «macerie» della cosiddettaRicostruzione prevalentemente in «periferia». Della «città» della Toscana che abita egli ama la «nuova» periferia urbana che sta nascendo a ridosso del centro storico e quando si trova a dover «traslocare» (con Anna) a Milano riflette: «La zona era buona, un po’ lontano dal centro, ma servita da quattro linee tranviarie e da un autobus. Intorno c’erano i mercatini rionali e persino l’Upim, comodo per fare la spesa»; per cui: «Finché fossimo rimasti nell’isola intorno alla Braida del Guercio, della città noi avremmo visto soltanto una fettina esigua, atipica, anzi falsa; avremmo visto, daccapo, pittori capelluti, ragazze dai piedi sporchi, fotografi affamati, ma non la città. Non si capisce Parigi standosene barbicato a Monmartre, né Londra abitando a Chelsea. Così non si capisce questa città ruotando attorno alla cittadella della guercia, dove il capocellula fa il parrucchiere per cani, e i compagni sono così spaiati e balordi». Scrittore periferico per destino ma non per vocazione, in questa Trilogia della rabbia , Luciano Bianciardi pone sulla scena sé stesso: nei primi due in compagnia del fratello Marcello (nome felliniano quant’altri mai …) e negli ultimi due di Anna (che ne L’integrazione è un omonimo amore giovanile di Maria Jatosti – sua «compagna» (e lo era anche politicamente) nella «Tesa tetraggine» milanese di vita – gli diede anche un figlio, Marcello Jatosti, che non ha potuto portare il cognome del padre essendo Bianciardi regolarmente sposato a Grosseto con Adria – la figlia del cappellano – dalla quale ebbe anche due figli: Ettore nel 1948 e Luciana nel 1955. Luciano Bianciardi ha una storia, tutti hanno una storia … Ne L’integrazione si chiama Luciano Bianchi: si definisce un «intellettuale». Ha studiato, ha fatto la Seconda Guerra Mondiale, è pronto per le opportunità e le possibilità che offre il suo Paese per chi voglia darsi da fare. Ma Luciano Bianciardi è un essere a metà (anzi a un terzo) tra la «rabbia» di Charles Bukowski, l’«anarchia» di Fabrizio De André e il «disinganno» del Friedrich Nietzcshe di Ecce homo (scritto nel 1888 ma pubblicato postumo otto anni dopo la morte del filosofo, adesso in edizione Adelphi, A cura di Roberto Calasso, Milano, 1969) il cui sottotitolo è «Come si diventa ciò che si è»; nelle parole di Luciano Bianciardi: «Io non capisco tanta gente che sgobba per farsi la casa bella nella città dove lavora, e quando se l’è fatta sgobba ancora per comprarsi l’automobile e andare via dalla casa bella. Io poi l’automobile non l’avrò mai, e nemmeno la casa bella; debbo contentarmi di lavorare per restare quello che sono, e lavorare sempre di più, anzi perché con il continuo aumento dei prezzi, per restare come sono occorre un guadagno ogni anno maggiore». Questo mix di Bukowski, De André e Nietzsche produce una figura di scrittore (ma sono le «traduzioni», più che altro, a dare il pane a Luciano Bianciardi …) critico e partecipante, solitario ma non solo … In una parola: «un escluso» … Luciano Bianciardi (che negli ultimi anni della sua vita scelse di abitare a Sant’Anna di Rapallo per andare a morire di cirrosi epatica a Milano il 14 novembre del 1971 a 49 anni) è un «escluso» dalla sua «città» natale (che sceglie di lasciare), è un «escluso» dalla sua «città d’adozione» della quale non condivide lo stile di vita e la nascita di numerosi «torracchioni», è, infine, un «escluso» dai suoi «tempi» – egli infatti scrive: «E poi mi sono accorto che andando in centro trovi sì qualche conoscenza, ma ti accorgi subito che la tua conoscenza è un fatto puramente ottico. Non trovi le persone ma soltanto la loro immagine, il loro spettro, trovi i baccelloni, gli ultracorpi, gli ectoplasmi. Nei primi mesi del loro arrivo in città forse no, forse resistono e hanno ancora una consistenza fisica, ma basta un mezzo anno perché si trovino dentro, perdano linfa e sangue, diventino gusci. Scivolano sul marciapiede rapidi e senza rumore, si fermano appena al saluto, con un sorriso scialbo (e anche all’esterno, se guardi bene sono già un po’ diversi, cioè impinguati e sguaiati» … Ma lo scrittore di Grosseto (e il suo alter egoLuciano Bianchi) è anche un «escluso» dal «mondo del lavoro»: «No, è stato meglio così: io ho bisogno di un’altra vita. Io sono diventato una persona seria. Vita nuova, lavoro nuovo, un modo nuovo di guardare le cose. Intanto ho preso moglie: è una ragazza positiva, che naturalmente si chiama Maria, come molte ragazze di quassù. Positiva, quadrata, lavoratrice, piccola e sottile, con un’ombra di peluria sotto il naso, che le dà un’espressione decisa e persino autorevole. Ha saputo mettere ordine nelle mie cose; nei miei pensieri, nei miei sentimenti. Ormai lo capisco: in questa città, se sai darti un ordine, se sai metterti in linea, trovi lavoro buono e ci stai bene». Interessante questo «smottamento semantico» (tra la vita e la letteratura): Maria è la giovane «moglie» di Luciano Bianchi e Maria Jatosti è la «compagna di vita» di Luciano Bianciardi.
3. Il lavoro
Il bidello Corinto, nel suo «piccolo» idioma, aveva però detto la verità. «Mezzeseghe», «preti» e «intellettuali»: a partire da Il lavoro culturale (che si sviluppa proprio da una «analisi» dei tre tipi di «intellettuali» con cui il giovane Luciano ha a che fare a Grosseto) il «panorama» e l’«ambiente» descritto da Luciano Bianciardi è molto più importante della «psicologia» delle «persone» e dei «personaggi». Bianciardi non è uno scrittore che indaga la «coscienza» … Più che altro è un osservatore di «universi sociali» che si lascia sorprendere (e sotterrare) dagli ambienti che analizza. Ne L’integrazione, il giovane «provinciale» arriva nella «grande città»: «Vedi, da noi è troppo facile, fin tropo comodo. Il Betti, il Rosini, Aldo, Carlo, il sindaco rappresentano per te e per me, una fetta d’Italia, che sta scomparendo. E sai perché sta scomparendo? Perché è troppo soddisfatta della sua composta perfezione, e non riesce a trovare alcun aggancio, con quest’altra Italia, balorda quanto vuoi, ma reale e crescente. Non trova un aggancio con questa, e non lo trova nemmeno con l’altra Italia, quella di sotto, quella che ha fame, che campa con centomila lire annue per famiglia, che non sa né leggere né scrivere. Fra queste due Italie, per diverso motivo depresse, come suo dirsi oggi, la nostra Italia di mezzo non riesce a trovare la mediazione. Star lì è comodo quanto vuoi, ma non serve a nulla. Io credo che noi due siamo venuti quassù proprio per questo, per tentare la mediazione. Se tu sei venuto con l’idea di sistemarti nel ventre di vacca della cosiddetta grande città, ti sbagli di grosso e ti ripeto che sei un provinciale. Quassù non siamo venuti allo stesso modo che se si fosse preso il treno per Matera. In una zona depressa siamo venuti, credilo pure, e ben più difficile che la Lucania; perché là la depressione salta subito agli occhi, mentre qui si maschera da progresso, da modernità». Certo … La «mediazione», nella mente del Luciano (protagonista de La vita agra) consisterà nel «fare saltare in aria» il «torracchione» – anche se nel romanzo non è mai nominata esplicitamente, della «Montecatini»). Miserie umane, politica, senso di fallimento e di frustrazione, rifiuto del boom degli «Anni del boom», risentimento, desiderio «incerto» di una vita diversa: stigmatizzazione dell’omologazione, del conformismo, della «società di massa» in quella che è stata definita una «Vita presaurizzata», Luciano Bianciardi «escluso» (dall’amore, dal lavoro, dalla sua «città», dalla «città di adozione», dai suoi «tempi» di rincorsa al benessere e al denaro, dalla politica, dai ritmi di una vita che non condivide) trova nel Lavoro culturale (che esprime al meglio, però, ne L’integrazione) il senso di una scorza di limone. Una Vita agra.
4. Il tempo
«Il tempo» è «fermo»: il 14 maggio del 1954. Siamo nella Val di Cecina. Precisamente nella frazione di Ribolla del comune di Roccastrada, in provincia di Grosseto. Luciano Bianciardi ha 32 anni. La Val di Cecina si estende lungo in corso del fiume Cecina lambendo le province di Pisa, Livorno, Siena e Grosseto. Ribolla ci cade proprio in mezzo. La «Montecatini» (Società Generale per l’Industria Mineraria e Chimica) – fondata nel 1888 col nome di «Società anonima delle miniere di Montecatini» ha una miniera proprio a Ribolla – si estrae la lignite. Alle 8.40 di quel giorno oramai lontano la prima squadra dei minatori era scesa nei pozzi da poco: erano 28 minatori, un sorvegliante, 5 operai della squadra antincendi, e un elettricista: le squadre di soccorso troveranno 41 corpi – per la maggior parte carbonizzati, altri asfissiati – gli ultimi due cadaveri verranno recuperati un mese dopo: a causa di un esplosione di grisou (che ha devastato il pozzo Camorra), la miniera viene devastata. Questo episodio per Bianciardi – autore «escluso», siamo d’accordo, ma pur sempre capace di indignarsi – ne La vita agra il protagonista decide di «salire» a Milano e far saltare in aria il «torracchione» proprio della «Montecatini»: la sede centrale, il cervello pensante, l’apparato dirigenziale, il cuore, il centro strategico della azienda che – a giudizio di Bianciardi – ha causato il disastro. Bianciardi è come un Pier Paolo Pasolini un po’ troppo cresciuto per classe sociale di interesse: ci fa vedere (e mette in scena) «l’altra Italia»: quella dei reietti, dei paria, di «quelli che non ce l’hanno fatta» … La «sua», in definitiva … Se Franco Interlenghi, nel film I Vitelloni, uscito sette anni prima della Vita agra, interpretava il giovane Moraldo che, nel finale, trovava il coraggio di lasciare la vita di provincia – sia pure essa emiliana e non toscana – per tentare la sorte, Luciano – a causa di quella tragedia mineraria (dello schifo e dell’ «incazzatura» ) lascia Grosseto per «fare» determinate cose: carriera, portare a compimento la sua «missione» (il suo «Montecatini boom») contro la grande azienda che, già, prefigura la globalizzazione e le sue dinamiche ipertecnologiche e neocapitaliste (oltre che neoliberiste), tentare la sorte, liberarsi dalla «provincia» e dal «provincialismo» (per poi «finire» stretto in un’altra «provincia»: quella del rifiuto, della «nausea» – sia essa sartriana o meno -, del «rigetto». In definitiva «dello sconcerto». Luciano Bianciardi – faccia o meno saltare in aria il «torracchione» della «Montecatini» – nella storia della letteratura italiana rappresenta lo scrittore dello «sconcerto». E dell’inquietudine.