Le Otto Montagne (di F. Van Groeningen & C. Vandermeersch, ITA-BEL-FRA 2022)
Le otto montagne è diretto dal belga Felix Van Groeningen (insieme alla sua compagna Charlotte Vandemeersch), l’autore del felice e ad un tempo straziante Alabama Monroe (The Broken Circle Breakdown) del 2012. Non importa amare la montagna per apprezzare la pellicola qui recensita che fa riflettere e discutere, pur non essendo un’opera impeccabile sul piano formale, e tiene desta l’attenzione e l’animo dello spettatore per i 147′ della sua durata.
La sinossi è lineare ma va richiamata seguendone tutti i passaggi senza spoilelarla sino all’ultimo. E possiamo evocarla a partire dalle prime scene che riguardano l’amicizia e i giochi di due dodicenni tra i monti valdostani, nell’agosto del 1984. Non sono scene allegre e spensierate, qualcosa di inespresso malinconico interferisce. I ragazzi comunque si divertono insieme, scoprono la natura e le sue meraviglie e poi si intendono, solidarizzano, nonostante, o forse proprio per la diversa estrazione. Si tratta infatti di Pietro e Bruno, l’uno torinese, cittadino, figlio di ingegnere, l’altro montanaro valdostano, senza madre e col padre lavoratore lontano; Bruno parla il dialetto che l’amico è curioso di imparare, vive con gli zii che ogni tanto in dialetto manda affanculo (letteralmente) quando è richiamato ai doveri casalinghi. I due si conoscono in occasione di una prima estate quando la famiglia di Pietro si reca in una casa di montagna presa in affitto poi si rivedono per altre estati e sporadicamente nei fine settimana. Giovanni, il padre di Pietro (Filippo Timi), è appassionato escursionista e porta i due ragazzi con sé, zaini pesanti in spalla e desiderio di raggiungere mète difficili, più come obiettivo in sé (arriva e subito vuole ridiscendere) che per assaporarsele, un po’ nevroticamente. In uno dei momenti chiave del film i genitori di Pietro propongono al ragazzo di montagna di vivere con loro a Torino e di alfabetizzarsi, frequentare la scuola ecc. Pietro non gradisce questa iniziativa, e peraltro Bruno viene portato dal padre lontano a lavorare con sê e da questo momento cambiano diverse cose, si incrina anche l’amicizia tra i ragazzi. Passano alcuni anni. Raggiunta l’adolescenza, Pietro non ha più voglia di accompagnare il padre, cerca autonomia dalla famiglia, e sia pure in precarietà rapidamente sceglie una sua strada (da adulto: Luca Marinelli). C’è anzi una rottura tra padre e figlio. Pietro tra i venti e i trent’anni vive fuori casa, vive come puô, fa il cuoco e svolge altri lavori saltuari a Torino. Si tratta di una frattura lunga e insanabile, rispetto alla quale la madre, e moglie, poco può. Dopo la morte di Giovanni, Pietro ritroverà Bruno (Alessandro Borghi), venendo a sapere che il padre ha continuato ad andare per molti anni sugli stessi monti trovando nel ragazzo e poi giovane uomo un compagno di spedizioni e una consolazione, un sostituto, per certi versi, del figlio. Bruno ha ammirato Giovanni e ha visto in lui il padre che non ha mai davvero avuto (e che lo ha anzi sradicato dal suo habitat facendogli fare l’operaio a Torino o chissà dove a tredici anni). Il legame di Bruno con le sue terre è fortissima. Conosce Lara, una ex ragazza di Pietro (è una torinese di origini montanare), la sposa, ha una figlia con lei e mette in piedi un’attività di alpeggio, di produzione e vendita di forme di formaggi. Le cose alla lunga non andranno bene, il mondo è cambiato, la vita è difficile. Pietro è spettatore di qualche lite, Lara e Bruno hanno idee diverse su come portare avanti la loro vita in comune. E Pietro: lui che sembrava sbandato, inconcludente, trova una sua via, e avrà persino qualche successo come scrittore (romanzi? diari di viaggio? guide turistiche? non si capisce). Ci arriva cercando se stesso mediante viaggi in India. Conosce altre montagne, quelle lontane del Nepal, ma non ha mai interrotto il legame solido di amicizia con Bruno, lo protegge e si mette a sua disposizione quando serve, a costo di sobbarcarsi lunghi e improvvisi viaggi. I due del resto sono da tempo accomunati da una baita che hanno costruito e possiedono insieme. Il padre di Pietro aveva acquistato un rudere in alta montagna e i due ragazzi lo trasformano in una casa, molto essenziale, l’elettricità garantita da un mulino ad acqua, ma vivibile. E’ Bruno che insegna a Pietro ad essere un manovale capace, in un momento del film in cui sembra essere lui il migliore, il più solido. Ma è a partire da questo momento (anteriore all’attività di produttore di formaggi imbastita da Bruno e dalla sua vicenda privata e familiare) che anche Pietro si riconcilia con la memoria del padre, ne riscopre le carte geografiche segnate per designare i tragitti in montana, riscopre vecchi quaderni dove gli escursionisti scrivono poche righe di sensazioni, li riscopre nei luoghi della sua infanzia. Bruno non avrà un futuro felice. Possiamo fermarci qui per quel che riguarda la tessitura del racconto.
Le Otto Montagne ha avuto il premio della giuria a Cannes 2022. Le riprese sul campo lungo delle montagne della Val d’Aosta, in Val d’Ayas, nei pressi del gruppo montuoso del Monte Rosa sono suggestive, ma non hanno nulla di documentaristico, di compiaciuto, di oleografico; sono suggestive, ma mai da cartolina. Alcune scene rimangono impresse, come la gita verso il ghiacciaio dei tre, con Pietro che arranca, non si sente bene, non riesce a superare un piccolo crepaccio. Vive questa escursione faticosa come una violenza esercitata dal padre e come una umiliazione nel confronto col più robusto Bruno. Fuori campo la sua voce dichiara di non aver mai dimenticato quella giornata. Un aspetto che un po’ lascia interdetti, perché non sembra del tutto credibile è la scelta-non scelta di Bruno di rinunciare alla famiglia che aveva costruito, rimanendo a vivere, nonostante il fallimento della sua impresa commerciale, strettamente legata al pascolo montano, nella baita che decade un po’ come uno yeti. Fino alle estreme conseguenze? Molto interessante è anche osservare il ribaltamento progressivo dei ruoli e della riuscita esistenziale tra i due protagonisti: con una sorta di determinismo sociale in virtù del quale nonostante tutte le sue incertezze e fricchettonaggi il borghese riesce a cavarsela e il figlio della montagna no. Scene deboli e stereotipe quelle girate in Nepal (sorrisi patetici, strade confuse di automezzi e velocipedi, bambini ovunque), colonna sonora incoerente con quel sound struggente, interessante, ma distonico rispetto al contesto storico, naturale e narrativo, quasi da country folk americano (in realtà composizioni di alcuni anni fa dello svedese Daniel Nordgren) anche se questo tipo di musica sembra essere una importante parte della cultura del regista belga, come in Alabama Monroe, dove peraltro ha un ruolo centrale nella trama.
Il film è l’adattamento del romanzo omonimo di Pietro Cognetti. La voce fuori campo che postilla e illustra via via il film, è come accennato quella di Pietro, la sua prospettiva, l’evoluzione del suo sentire spiegata allo spettatore. Eccellente interpretazione di Alessandro Borghi. Bravi tutti gli altri.