19 Dicembre 2024
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Nicola Pineschi, Aquaraggia, Distillerie, 2022 (foto di Nico “Lopez” Bruchi)

Ho sempre pensato che Nicola Pineschi fosse un cantautore di grande talento, ma talmente autentico da risultare marginale nel panorama musicale attuale, sempre più appiattito e omologato nella logica del business e dell’artista finto, costruito a tavolino, secondo rigidi parametri aziendali, e lanciato in pasto al pubblico osannante come una vuota marionetta, eterodiretta. Funziona così, dicono. Ma non per tutti. Non per Nicola Pineschi, autore autentico fino all’osso, fino all’ultima goccia di sangue. E questa sua autenticità irrompe potente, trasgressiva, nella sua prima raccolta di poesie, “Aqvaraggia”. Qui Nicola Pineschi è il poeta che si presenta nella sua nudità, senza filtri, senza facili scorciatoie. Non c’è una rete, sotto, a proteggere, ad attutire l’impatto. E’ una sorta di vittima sacrificale della solitudine, dell’incomunicabilità, del disamore, che feriscono l’uomo nel profondo e lo fanno star male. Il poeta rappresenta non il suo dolore, ma – leopardianamente – il dolore del mondo, la ferita irrisarcibile, la sofferenza di chi non si arrende alla mediocrità della norma, alla tragicità del nulla, e comunque ineluttabilmente s’immerge in questo nulla, s’immola nella rappresentazione del nulla (“ Io sono il niente/Che non ha più amore/Colui che non vive/Che nemmeno muore” in Nihil; “ché vivere è come morire/ inutile e fine a se stesso”, in Altweibersommer ); nella rabbia e nell’inganno di una vita  che sembra senza speranza,  il poeta guarda in faccia la realtà, non fugge di fronte allo specchio ed esprime la solitudine di chi vive con quella ferita sempre aperta, scavando nell’anima, fino in fondo. Questa è la pena di chi è poeta autentico: vivere sulla propria pelle il male del mondo, ma – in qualche modo – far finta di niente, tenere per sé il peso ultimo, quello che non si fa vedere ( se non al poeta), e restare “in equilibrio su un filo/come  su un sorriso” (I funamboli), mentre “sanguina ora la mia ombra spezzata/ferita alla schiena da un ricordo di luce” (Le scale del pomeriggio).

Quelle di Nicola Pineschi sono “storie di solitudini e di inquietudini” che attraversano una vita, si perdono nelle piaghe irrisolte del tempo, nei sogni svaniti di fronte al nulla, che si ripresenta sempre, quasi come un complice indesiderato e inestirpabile (“A cosa serve un poeta/se non può parlar d’amore?…”A cosa serve un poeta /se non ha voglia di volare?”).

Eppure c’è dell’altro. Qualcosa che resiste tra le macerie e il rimpianto.

La poesia di Nicola Pineschi ha una forza che inchioda, ci prende per disperazione, per rabbia, per disincanto e per tutto l’amore che sta dietro a tutto questo. Sentiamo questa poesia come necessaria, esce da profondità estreme e trova la sua piena espressione nell’abisso cercato, concupito della parola, dove “l’anima nuda ed eroica”  esige un’altra esistenza, un altro orizzonte. Perché comunque ci sarà un tempo in cui “finirà questa pioggia/e sarà un’altra estate”. E il poeta potrà tornare a parlare d’amore e a rialzarsi ogni volta che gli cadranno le ali.