19 Dicembre 2024
Sun

Valentino Ronchi, Buongiorno ragazzi, Fazi Editore 2019, pag. 86, € 17,00

 

Inevitabile il rimando al film di Louis Malle, “Arrivederci ragazzi” di fronte al titolo Buongiorno ragazzi di Valentino Ronchi. Ma se il primo riconduce a un momento tragico della Storia,  la raccolta di Ronchi cerca la bellezza  nella vita che si dipana – o che si è dipanata -, nelle azioni, nei gesti, nelle situazioni, nelle parole dette o pensate, negli oggetti che ci completano, affermando la forza e l’unicità di ogni momento che viviamo, di ogni presente che abbiamo vissuto, che diventa poesia quando il ricordo lo filtra liberandolo da ogni impurità e lo soffonde di una nostalgia felice: “Guardare gli occhi, la strada, la luce,/ lo sfondo, il paesaggio. Trovare da dire/ – possibilmente parlando d’altro /– qualcosa della vita che improvviso/ rimanga per sempre nella mente di lei/ chiunque lei sia”.

Sono stati compagni di classe quelli che si incontrano da giovani adulti alla morte del professore di greco, ormai hanno fatto le loro scelte di lavoro e di famiglia. L’incontro li riporta al passato: “Ricordi?” sembra che mormorino tra loro, magari a capo chino davanti alle esequie, magari volgendosi di sottecchi al vicino: “La notizia colse tutti impreparati ovunque/ si trovassero in quel mentre, rientrati/ da un’altra estate. Si chiamarono l’un/ l’altro, fino che il giro fu completo. / Dalle finestre socchiuse, la fine bionda/ della stagione, il buio tiepido delle piante/ macerate”.

Ogni poesia della raccolta è un momento, un pezzo di storia comune, un quadro di vita concreta: questa “è la storia nostra […] amici e amori miei”.

Riemergono volti giovani di liceali col Rocci sotto il braccio – vocabolario che non entra nello zaino – per le strade di Milano nominate una per una, quasi a ripercorrerle; ragazze compaiono nella freschezza di incontri e di amori; emozioni si riscoprono con la meraviglia di averle provate, nella consapevolezza di ciò che non è stato e ora suscita un moto di tenerezza: “Non importa,/ e come si chiama, domando. Si chiama, non ridere,/ Margot. E sì rido, sì che rido, che mi ricordo/ bene di quando lei, lungo un vecchio muro/ di villa un secolo fa, mi disse se avremo una figlia/ la chiameremo Margot. Hai trovato qualcuno! che non ha saputo dirti di no a questo nome”.

Solo da adulti ci si rende conto di quanto siano stati belli gli anni trascorsi sui banchi di scuola durante “le giovinezze nostre, di tutti, che belle si somigliano”. La fine del liceo lascia un senso di disorientamento simile alla paura, perché il gruppo è sicurezza, amicizia, complicità: “Come sarà domani senza/ di voi, si chiedeva ciascuno senza dirlo/ a voce alta, senza mattine né libri né tram./ Cosa sarò io, senza di voi, era la domanda nella gola di tutti,/ che nessuno osava fare”.

Poi c’è la vita, unica per ciascuno e forse sorprendente – “a Delfi l’oracolo mica ci disse niente” – e il vissuto condiviso svanirebbe a poco a poco se non ci fossero occasioni per mantenerne la concretezza e a confermare che è stato così: “Le nostre storie non hanno che noi/ per tenersi insieme”. Ma i forti legami nati intorno alla lettura di Omero, alla voce di docenti stimati, non si perdono: “Dove siamo stati/ quando non siamo stati insieme? Tutti/ qui – indubbiamente – e pure altrove”.

Se da una parte il passato chiama: “- Torniamoci ancora una volta a Parigi/ diciamolo anche a Stefano – insiste/ Francesco, a una panchina a Cadorna/ – in primavera perlomeno – “, con il desiderio e l’illusione di riprodurre esperienze lontane, c’è comunque riconoscenza alla vita per quello che ha dato e dà, nel suo continuo fare e disfare: “Qualcuno nasce dunque/ e arriva, intanto che qualcuno se ne va”.

Siamo tutti dentro l’eterno ciclo delle stagioni che alternano oscurità e luce, con gli alberi dalle foglie nuove a primavera, incuranti di chi sta per partire, in “quelle stesse giornate di aprile/ di maggio e di giugno di quell’ultimo/ anno, con tutta quella luce e le ombre/ per le strade di alberi soliti, che senza/ badarci al tempo nostro, mettevano nuove/ le foglie, in attesa ormai dei prossimi/ studenti”.

Una poesia, quella di Valentino Ronchi, che non si avvita su se stessa, non scava nelle proprie inquietudini, disagi, mancanze, ma procede verso l’esterno e gli altri e li riporta a sé. Versi dove la rima e l’assonanza, pur non invasivi, creano un cordone musicale dove l’enjambement fa da padrone, che non rifiutano gli anacoluti con la sicurezza di chi sa maneggiare la lingua; una poesia lieve, morbida, attraversata da un ritmo ondulato che sembra la voce del mare.

 

 

 

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.