23 Novembre 2024
Culture Club

Playboy intervista Orson Welles, 1967

PLAYBOY: In un’era di crescente specializzazione, ti sei espresso pressoché con tutti i mezzi artistici. Non hai mai voluto specializzarti?
ORSON WELLES: No, non riesco a immaginarmi mentre mi limito. È una bella vergogna che viviamo in un’epoca di specialisti, e penso che tributiamo loro troppo rispetto. Ho conosciuto quattro o cinque ottimi dottori in vita mia, e mi hanno detto che la medicina è ancora ad uno stato primitivo e loro ne sanno un’infinitesima parte. Ho conosciuto solo un cameraman veramente bravo – Gregg Toland, per la fotografia diQuarto potere. Diceva di potermi insegnare tutto di una macchina da presa in quattro ore – e ce la fece. Non credo che lo specialista sia poi questo santone che il nostro tempo si è costruito.

PLAYBOY: Ma oggigiorno è possibile un uomo del Rinascimento, qualcuno che sia compatibile con le arti e le scienze allo stesso tempo?
ORSON WELLES: Possibile e anche necessario, perché il grande problema che sta davanti a noi è la sintesi. Abbiamo una serie di oggetti slegati e dobbiamo ricavarne un senso. Il peggior tipo di lunatico è quello che percorre sempre la stessa strada. Ed è meglio tanto per l’individuo che per la società che i nostri orizzonti siano i più ampi possibili. Quel che una persona normalmente intelligente non può apprendere – se è genuinamente vitale e onestamente curiosa – non val la pena di essere appreso. Ad esempio, oltre a sapere qualcosa del dramma Elisabettiano, penso che dovrebbe anche buttarsi a spiegare i principi della fissione nucleare – buttarsi quel che basta per essere attenti al mondo oggi. Non dico: “Quello è un mistero che va lasciato agli scienziati”. Certo non ti dico che vorrei un posto chiave alla Difesa nazionale. […]

PLAYBOY: Potessi scegliere un periodo in cui nascere, diresti sempre gli Stati Uniti nel 1915?
ORSON WELLES: Gli USA di quell’anno sarebbero a buon punto della classifica, ma ognuno sano di mente avrebbe scelto l’età d’oro della Grecia, il Quattrocento italiano, l’Inghilterra elisabettiana. E ci sono state altre epoche d’oro. La Persia ha avuto la sua, la Cina ne ha avute quattro o cinque. La nostra età è straordinaria, ma non mi pare nemmeno d’argento. Penso che sarei stato più felice e più soddisfatto in altre periodi e altri luoghi – come magari l’America che sostituiva i tetti alle tende.

PLAYBOY: Qualche figura di storia Americana con la quale ti identifichi.
ORSON WELLES: Come la maggioranza degli Americani avrei volute avere un po’ di Lincoln in me: ma non è così. Non riesco a immaginarmi capace di tanta bontà o compassione. Direi che l’unico Americano che per ruolo avrei potuto occupare è Tom Paine, un radicale, un vero indipendente – non nel senso odierno, comodo dei liberali, ma in quello buono, difficile per il quale lui era pronto a farsi la galera. È stata la mia fortuna, nel bene o nel male, non dover fare scelte simili alle sue. […]

PLAYBOY: Quindi sei d’accordo con WH Auden quando si paragonava a qualcosa come la figura di Cristo?ORSON WELLES: Non voglio andare nel caso specifico, benché la mia carne si spaventi quando le persone usano la parola “Cristo”. Penso che Falstaff sia un albero di Natale adornato di vizi. L’albero di per sé è innocenza totale, amore. Per contrasto, il re è decorato soltanto dalla maestà, un puro machiavellico. E c’è qualcosa di crudele ed egoistico nei confronti di suo figlio – persino quando raggiunge l’apoteosi come Enrico V. […]

PLAYBOY: Il tuo Falstaff ha un messaggio?
ORSON WELLES: Lamenta la morte della cavalleria e il rifiuto dell’Inghilterra felice [quella di Chaucer]. Persino al tempo di Shakespeare, la vecchia Inghilterra delle boscaglie e del tempo di maggio era già un mito, ma un mito reale. Il rifiuto di Falstaff da parte del principe indica il rifiuto di quell’Inghilterra da parte di un’Inghilterra di genere nuovo, quello deplorato da Shakespeare e che finì col diventare l’Impero britannico. Il cambiamento sostanziale non è scusa valida per tradire l’amicizia. Liberando questa storia ho giustificato il mio approccio chirurgico ai testi, un taglia-e-cuci con le tragedie di Shakespeare. […]

PLAYBOY: I registi americani, oggi.
ORSON WELLES: Stanley Kubrick e Richard Lester sono gli unici che mi affascinano – fatti salvi i vecchi maestri. Con questi intendo John Ford, John Ford e ancora John Ford. Non riesco a vedere Alfred Hitchcook come americano, benché abbia lavorato a Hollywood tutti questi anni, mi sembra tremendamente inglese nella migliore tradizione di Edgar Wallace, e nulla più. Nel suo lavoro trovi sempre l’aneddotico, i suoi espedienti rimangono espedienti, non importa quanto abilmente concepiti ed eseguiti. Non penso onestamente che le immagini di Hitchcook come regista avranno interesse tra cent’anni [1967]. Con Ford al suo meglio senti invece che il film ha vissuto e respirato nel mondo reale, anche se poi magari è stato scritto da Mother Macree [1910]. Quello di Hitchcook è un mondo di spettri che ti spiano. […]

PLAYBOY: Pensi che aiuterebbe avere un sussidio federale per scuole di film in USA?
ORSON WELLES: Se facesserofilm invece di parlarne e se tutte le lezioni di teoria vi fossero rigorosamente proibite, potrei immaginare una scuola di film di grande valore, effettivamente.

PLAYBOY: E la produzione di film? Andrebbe finanziato con denaro pubblico, come in molti stati europei?
ORSON WELLES: Se è vero – e credo che lo sia – che teatro, opera e musica andrebbero finanziate dallo stato, allora questo varrebbe anche per il cinema, a maggior ragione. I film sono socialmente più potenti e hanno molto a che vedere con questo particolare momento della storia mondiale. Denaro abbondante dovrebbe affluire al cinema. Ne ha ancora bisogno e ha ancora molto da dire.

PLAYBOY: Il tuo vizio più grande.
ORSON WELLES: Accidia — latino medievale per ‘malinconia’ e indolenza. Non le do molto spazio ma si presenta come il rollio della nave, all’improvviso. Ho molti dei peccati accettati, ma l’invidia non sarà tra questi. Nemmeno troppo orgoglio, e non sono sicuro che sia un peccato di quelli sulla lista dei cristiani. Se è una virtù non me riconosco molto; lo stesso se è un vizio. […]

PLAYBOY: Se l’arte è una forma di protesta, come hanno avvertito certi filosofi, pensi sia possibile che in un mondo automatizzato fatto di abbondanza, privo di frustrazioni e pressioni, nessuno si senta spinto a creare l’arte?
ORSON WELLES: Penso che ci possa essere un altro granello di sabbia anche nell’ostrica perfetta: altrimenti non ci sarebbero più perle. E non accetto che l’arte sia basata esclusivamente sull’infelicità. Spesso è serena e gioiosa, una sorta di celebrazione. Questo non è per negare che larga parte di lavori artistici sono venuti fuori da condizioni di infelicità spirituale ed economica, ma il fatto è che non vedo motivi per pensare che una cultura sarà più povera se la gente è più allegra. […]

PLAYBOY: Dimmi se sei d’accordo con quegli artisti moderni che dicono: “Non mi importa di quel che succede alla mia opera domani – lei è intesa solo per l’oggi”.
ORSON WELLES: No, perché un artista non dovrebbe neanche preoccuparsi di quel che accade oggi, se lo facesse escluderebbe ogni altro tempo, sarebbe un contemporaneo autoconsapevole, questo è difendere per assurdo la propria parrocchia. Ecco cosa c’è di sbagliato nel fatto che gli artisti si associno con gli agenti pubblicitari: oggi questo è canonizzato, beatificato. Ma oggi è solo un altro giorno nella storia del nostro pianeta. Solo chi vi sta vendendo qualcosa tratta l’oggi come l’unica cosa che esiste alla quale tutto è rivolto. […]

PLAYBOY: Qualche teoria per quel che ti succederà una volta morto.
ORSON WELLES: Della mia anima non so, ma il mio corpo sarà spedito alla Casa Bianca. I passaporti americano ti chiedono di indicare nome e indirizzo della persona alla quale andrebbero consegnati i tuoi resti in caso di morte. Anni fa ho scoperto che non vi è alcuna legge che vieti di segnare il nome del Presidente. Questo ha un effetto potente sui confini di stati e funge come una specie di visto diplomatico. Nel lungo periodo di Eisenhower quasi quasi  desideravo crepare per far trovare la mia bara davanti alla sua troupe televisiva, una sera o l’altra.

PLAYBOY: Come vorresti che il mondo si ricordasse di te?
ORSON WELLES: Mi sono dato un’impostazione per la quale il successo quaggiù mi importa solo per quel che mi è funzionale. È una postura onesta e non una posa dello sguardo. Fino a qualche punto, devo avere successo per poter operare. Ma penso che preoccuparsi del successo corrompa; e nulla potrebbe essere più volgare di preoccuparsi della posterità.

PLAYBOY: Non sei cattolico eppure hai deciso di vivere in paesi a intensità cattolica, prima l’Italia e ora la Spagna. Ci puoi raccontare?
ORSON WELLES: Ma non ha a che vedere con la religione. La cultura mediterranea è più generosa, meno guidata dal senso di colpa. Qualsiasi società senza felicità naturale, senza quel senso di facilità in presenza della morta, non mi fa sentire granché comodo. Non condanno quel mondo di artisti molto nordico, molto protestante come quello di Ingmar Bergman; solo, non è lì che vivo. La Svezia che mi piace visitare è molto divertente. Quella di Bergman mi ricorda un detto di Henry James sulla Norvegia di Ibsen, cioè che era tutta “odore di paraffina spirituale”. Come mi fa simpatia James!

PLAYBOY: Penso a molti film che hai diretto, Quarto potereAmberson il MagnificoFalstaff. Non ci sono padri. Questa attitudine riflette qualcosa della tua vita?
ORSON WELLES: Non penso vada così. Ho avuto un padre che ricordo come molto gradevole e attraente, uno scommettitore d’azzardo, un playboy troppo arzillo per gli anni nei quali me lo ricordo io, ma era un compagno meraviglioso, fu un grosso dispiacere per me quando morì. No, una storia mi interessa per meriti suoi propri, non perché sia autobiografica. Quella di Falstaff è il meglio di Shakespeare, non l’opera migliore ma la storia migliore. La ricchezza del triangolo padre-Falstaff-figlio è senza paralleli; è creazione tutta shakespeariana. Le altre opere prendono fatterelli a prestito da altre fonti e diventano grandi per il respiro che vi insuffla Shakespeare. Ma nelle cronache medievali non c’è nulla che arrivi a toccare la storia Falstaff-Hal-Re. È storia sua e Falstaff è creazione sua, l’unico grande personaggio della letteratura drammatica che sia anche un buono.

PLAYBOY: E che mi dici di Fellini?
ORSON WELLES: Ha il dono come tutti quelli che fanno immagini, oggi. Il suo limite – che è poi la fonte del suo charm – è che fondamentalmente è molto provinciale. I suoi film sono il sogno della città grande fatti dal ragazzino della città piccola. La sua sofisticheria funziona perché è creazione di qualcuno che non ne ha, di sofisticheria. Ma poi mostra segnali pericolosi di essere un artista superlativo con poco da dire.

PLAYBOY: Ingmar Bergman.
ORSON WELLES: L’ho indicato poco tempo fa, non condivido né i suoi interessi né le sue ossessioni. Per me è più straniero lui di un giapponese a caso.

PLAYBOY: Prossimi sviluppi del cinema?
ORSON WELLES: Spero solo che si sviluppi, da più di vent’anni non vi sono grosse rivoluzioni e senza rivoluzioni si prepara la stagnazione e dietro l’angolo c’è la decadenza. Spero sorga un brand nuovo per la produzione di film. Ma prima che questo accada dovranno evolversi altre forme di produzione, meno costose da produrre e meno costose per lo spettatore. Altrimenti la grande rivoluzione non ci sarà mai e l’artista del film non sarà mai libero.

PLAYBOY: Considerata la distribuzione mondiale, pensi che un film potrebbe cambiare il corso della storia?
ORSON WELLES: Sì, e potrebbe essere un film davvero cattivo. […]

PLAYBOY: Guardandoti indietro, rimpiangi mai di non aver fatto politica?
ORSON WELLES: A volte, e con amarezza. C’era un tempo quando consideravo di correre come senatore giovane dal Wisconsin; il mio avversario sarebbe stato un certo Joe McCarthy [quello della caccia alle streghe]. Se senti che saresti potuto essere utile ed efficace in un ruolo pubblico, non puoi fare a meno di essere scontento di te stesso per non averci provato. Io lo provo spesso questo sentimento. Penso di essere, almeno potenzialmente, un public speaker migliore di un attore qualsiasi e sarei stato in grado di raggiungere la gente, muoverla, convincerla. Oggi l’oratoria è un’arte quasi inesistente ma se vivessimo in una società dove fosse considerata seriamente come arte – come fu in molti periodi storici – allora ti dico: avrei fatto l’oratore.

PLAYBOY: La tua attitudine verso la pornografia e verso le parole impronunciabili in letteratura.
ORSON WELLES: Le parole che dici sono strumenti utili ma, quando cessano di essere più o meno proibite, perdono il loro filo del rasoio. Quando vorremo scioccare, dobbiamo tener da parte qualcosa nella faretra verbale per quel compito. Quanto alla pornografia non sono d’accordo con il permissivismo attuale. Non mi riferisco a L’amante di Lady Chatterley e tutti quei libri che si usava censurare perché dicevano l’amore fisico. Mi riferisco alla pornografia pesante, il romanzo blu, il cinema blu. La differenza è abbastanza chiara, è sfocata solo quando sei a testimoniare in una corte. Sappiamo benissimo a cosa ci riferiamo col francese cochon[letteralmente ‘maiale’]. Non ha a che vedere solo con qualcosa da porci, ma pure da solitari. Una pornografia del genere potrebbe iniziare come stimolante sessuale tutto sommato benigno, ma termina come malattia e vizio caruccio. Non si può rilasciare la malattia dentro di noi in modo incruento, questa pornografia eccita ed incoraggia la malattia, specialmente per i giovani che ancora devono imparare il sesso come amore e condivisione di gioia. Quanto alle abitudini sessuali degli adulti consenzienti, sono affar loro. A me non piace il cartaceo di seconda mano; non che le persone loproducano, ma che altri si siedano da soli e poi lo leggano. […]

PLAYBOY: Certi sostengono che le frontiere dell’arte e della realtà potrebbero presto essere esplorate a fondo dalle droghe allucinogene. Come la vedi su questi cosiddetti aiuti della percezione?
ORSON WELLES: L’uso delle droghe è espressione perversa di un individualismo antisociale e negatore della vita. È tutto parte di una grande reazione, specialmente a Occidente, contro la natura inevitabilmente collettiva della società futura. Lascia che faccia un discorsetto. Donne europee che si truccano gli occhi per sembrare cinesi. Donne giapponesi che pagano operazioni estetiche e diventare americane. Bianche che si fanno le lampade. Nere che si fanno scolorire la pelle. Tutti stiamo provando a diventare quanto più simili agli altri. E con tutta questa massa in movimento – sia buona che cattiva, sia negazione dell’eredità culturale che affermazione di solidarietà umana – va avanti un ritiro dalla folla nell’io solitario. Il punto, se vuoi capire la droghe, è tutto qui. Non è asserzione di individualità, è sostituzione dell’individualità. Non è un tentativo di esser diverso quando tutti stanno diventando simili tra di loro; è un modo di evitare il tutto. La cosa peggiore che si possa fare. Preferisco di gran lunga la gente che rompe le acque, non quelli che lasciano la nave.

[Kenneth Tynan, Playboy interviewOrson WellesPlayboy magazine, marzo 1967 – adattamento immagine tratto da foto di Len Trievnor]