“Anatomia di una caduta” (di J. Triet, FRA 2023)
Palma d’Oro a Cannes 2023, questo ponderoso film (150’) di Justine Triet – regista quarantacinquenne con un passato da documentarista attiva in lavori di taglio sociale e politico, poi mantenuto anche nella sua opera prima come lungometraggio, La bataille de rue Solférino (2013) – è un thriller psicologico che si traduce presto perô, allo stesso tempo, in un dramma giudiziario in piena regola, alla Testimone d’accusa (B. Wilder, 1957): verte su una questione di diritto penale e in buona parte è ambientato in un ligneo e un po’asfittico tribunale dove si istruisce il processo e poi si attende il verdetto, tra inquadrature dei giudici, della giuria popolare, del pubblico, e le audizioni di testimoni e imputati, anzi della imputata. Tutto nasce dalla morte, apparentemente incomprensibile, di uno scrittore fallito, Samuel, marito della nota scrittrice Sandra Voyter (Sandra Hueller). La morte è avvenuta a seguito di una caduta dal piano alto di una abitazione nelle montagne di Grénoble, dove l’uomo è voluto a ogni costo tornare a vivere (la sua terra di origine) con sua moglie e il loro figlio ipovedente, Daniel. È proprio quest’ultimo a scoprire, inciampandoci e tastandolo, il cadavere del padre nella neve sotto la finestra del suo studio. La prima parte del film ha caratteri appunto piuttosto da thriller: una studentessa e giornalista che intervista la scrittrice (bisessuale, un aspetto che ha un peso nella storia), una musica assordante che proviene dalla stanza di sopra, dove sta Samuel, che obbliga ad interrompere l’intervista, senza che si capisca perché. Sembra che l’avere alzato così il volume sia dovuto alla gelosia di lui, al livore e all’invidia verso sua moglie, personalità in grado di meritare attenzioni mediatiche. Presto sarà evidente che l’ipotesi inizialmente avanzata, quella della morte volontaria, è per motivi diciamo pure logistici tutt’altro che certa e la prima accusata di ciò che si sospetta essere un delitto è Sandra. E da qui si diparte il massiccio nucleo principale del film, ritratto mediante flashback, audizioni d’aula, registrazioni e altre testimonianze dalle quali si deduce con sempre maggior forza che la coppia non era una coppia felice e che al suo interno erano anche scontri violenti, durissimi, verbali e a volte fisici, pure recenti rispetto alla tragedia. Ma sarà sufficiente perché il verdetto sia un verdetto di incriminazione della donna?
La bravura della Triet, fatti salvi alcuni momenti di stanca, soprattutto nella prima parte, risiede nel tener desta, tesa e curiosa l’attenzione dello spettatore che a sua volta è inevitabilmente trascinato a riflettere sull’anatomia di questa caduta, se sia o meno una “anatomia di un omicidio” (cf. Anatomia di un omicidio, di O. Preminger, 1959) o qualcos’altro. Nulla è lasciato alla spettacolarizzazione molto rimane a lungo irrisolto e ambiguo. La o le verità non si intuiscono, si possono solo ipotizzare. I dialoghi e il gioco dei rapporti affettivi e psicologici tra i diversi personaggi non sono scontati. Per fare un esempio l’amicizia e la confidenza, nonché le esigenze processuali, non bastano per impedire che Sandra mantenga con il suo avvocato e vecchio amico Vincent Renzi (Swann Arlaud) una reticenza persino protettiva nei confronti del marito, ciô che rischia di nuocerle perché l’avvocato ignora cose che avrebbero potuto facilitare il suo patrocinio. La sceneggiatura è inevitabile accostarla, come quasi ogni film in cui le coppie discutono non benevolmente tra loro in una ambientazione teatrale, a opere bergmaniane. Molto brava la protagonista, così espressiva nella sua indecifrabilità, e simpaticamente credibile l’avvocato amico (e quasi spasimante), un po’ troppo saputello e maturo il bambino ipovedente, che avrà un ruolo determinante nello scioglimento dell’intreccio giudiziario.
Sui film giudiziari si veda p.es. M. Sesti, Giudiziario, film,
<https://www.treccani.it/enciclopedia/film-giudiziario_(Enciclopedia-del-Cinema)/>