Senza nome. Simulazioni e simulacri di Schlein
Le elezioni politiche del 2006 videro fronteggiarsi due coalizioni: “La casa delle Libertà” e “L’Unione”. Per la cronaca vinse di misura proprio quest’ultima alleanza. E Giorgio Napolitano diede l’incarico di formare il nuovo governo a Romano Prodi. In quella tornata elettorale si verificò, per la prima volta, un fenomeno politico abbastanza straordinario: Silvio Berlusconi presentò la lista di “Forza Italia” con il simbolo di questo partito e il suo proprio nome. Ha inizio così, almeno in Italia, quella che il filosofo Emmanuel Mounier avrebbe chiamato: «la storia del personalismo» in politica. La persona, per Mounier, è un tessuto di relazioni (sociali e politiche); essa va messa al centro del discorso politico come unica responsabile del bene comune (collettivo, della società). Il personalismo, oggi, è riemerso nella vexata quaestio che ha visto coinvolti Elly Schlein e il Pd. Mettere o non mettere il nome della segretaria nel simbolo del partito in vista delle elezioni Europee? Alla fine di tutte queste simulazioni, tutti quei simulacri simbolici che sono – come avrebbe detto Ernst Cassirer che ha scritto la Filosofia delle forme simboliche: «Il primo stadio e la prima prova dell’obiettività perché, grazie a essi, per la prima volta viene offerto un punto fermo al perenne mutare del contenuto della coscienza, perché in essi viene determinato e messo in rilievo un elemento permanente».
In definitiva il simbolo è un mediatore tra il concreto e il concetto, quello che Immanuel Kant chiamava «lo schema». In questo schema: il concreto ha rappresentato la volontà del Pd di aderire al personalismo oggi imperante (tutti con i propri nomi nelle liste elettorali) mentre l’astratto avrebbe dovuto essere: tenere fede, ancora una volta, a una certa idea (o, come si dice oggi, visione o mission) che dovrebbe sorreggere un partito politico quale è il Pd. Dentro questo “schematismo kantiano”, Elly Schlein ha dovuto combattere “simulazioni & simulacri”. Alla fine il suo nome si è scelto di non metterlo.
Il “personalismo” ha una storia filosofica e una storia politica. La persona Elly Schlein è così importante al punto da segnare con la sua stessa attestazione di presenza i contenuti che dovrebbero sorreggere il suo partito e convincere gli elettori a votarlo. Insomma: la persona dovrebbe fungere un po’ da “specchietto per le allodole”. Da simulacro: simbolo, essa stessa, del (presunto) attaccamento a una personalità precisa, alla sua storia, alla sua faccia. Mentre le simulazioni (nome della Schlein si, nome della Schlein no) hanno portato alla fine a un risultato: lo schematismo vuole – almeno per questa volta – il Pd libero da simulacri.
E Elly Schlein? Affermare che la persona vada a colpire l’immaginario collettivo più che le idee di un partito vuole dire: prima il corpo e poi lo spirito, prima la materia e poi la forma, prima la carne e poi le idee. Dunque l’immaginario collettivo, come scrive il bravo filosofo sudcoreano (naturalizzato tedesco) Byung Chun Han a proposito della moda dei selfie, predilige le “facce” ai visi. La faccia è immediata; il viso racconta una storia, sofferenze e gioie, racconta una vita. Il personalismo in politica, dunque, è una dottrina dell’immediatezza, della semplificazione. Umberto Galimberti, ne L’etica del viandante, ha scritto che oggi si sceglie di votare quei partiti (populisti, a dire la verità) che a fronte della complessità sempre imperante scelgono la strada della semplificazione. Per una volta il Pd non ha scelto la strada della semplificazione. Ora c’è solo da aspettare, per vedere se ci sono le idee…