22 Dicembre 2024
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Sottomissione

Le immagini degli studenti dell’università occupata di Torino arringati da un imam jihadista sono sconvolgenti. Ma prima di parlarne vorrei fare un salto indietro di 45 anni.

Nel 1979 un gruppo di militanti romani dell’Autonomia operaia furono fermati a Ortona, in Abruzzo, mentre trasportavano su un pullmino un missile o qualcosa del genere, inutile perdere tempo nei dettagli tecnici, di proprietà del Fronte popolare di liberazione della Palestina. L’episodio fece molto rumore, anche perché nessuno all’epoca sapeva dell’esistenza del lodo Moro, tranne ovviamente alcune selezionate cariche di Stato e di governo. In sostanza, il lodo Moro era un accordo segreto e informale basato su questo scambio: i gruppi palestinesi avevano via libera nell’usare il territorio italiano come retroterra logistico delle loro operazioni in cambio della garanzia che non avrebbero realizzato attentati sul territorio italiano. Sull’episodio di Ortona ha ricamato a lunga la destra postfascista, cercando invano di metterlo all’origine della famigerata e ridicola pista palestinese per la strage alla stazione di Bologna del 1980. Ma non è di questo che parleremo oggi. Salto indietro di altri sette anni.

Nel 1972 – il lodo Moro non è ancora operativo – Oriana Fallaci va ad Amman, Giordania, per intervistare George Habash, capo del Fronte popolare. È un’intervista tesa, un corpo a corpo. Fallaci non nasconde la sua repulsione per i metodi politici di Habash, il quale a sua volta non fa nulla per compiacerla o farle cambiare idea. Fallaci contesta al leader palestinese l’uso del terrorismo e la spregiudicatezza con cui si mette in conto di colpire anche i civili. Gli rimprovera la pratica dei dirottamenti, degli attentati sugli aerei e negli aeroporti. Dice Habash: “Se l’Italia è una base per colpire gli arabi, gli arabi hanno tutto il diritto di usare l’Italia come base per colpire gli ebrei”. Chiede Fallaci: “Dottor Habash, cosa c’è di eroico nel terrorismo, nel dar fuoco a un ospizio di vecchi, nel distruggere le riserve di ossigeno di un ospedale, nel far precipitare un aereo o nel distruggere un supermercato?”. La risposta di Habash è questa: “Guerriglia, un certo tipo di guerriglia. E cos’è la guerriglia se non la scelta di un obiettivo che offra successo al cento per cento?”. Fallaci contesta a Habash che in Europa chi ha combattuto per la libertà non uccideva bambini e persone inermi. Così Fallaci descrive la risposta di Habash: “Non reagì arrabbiandosi. Mi spiegò anzi la sua teoria per dimostrarmi che avevo torto”.

Fino agli anni Ottanta la vicinanza tra una parte significativa della sinistra italiana e i gruppi palestinesi era cementata da una comune visione ideologica. Sosteneva Habash in quell’intervista: “Lo scopo della nostra lotta non è solo di ridare una identità alla Palestina ma di instaurarvi il socialismo”. Gli autonomi che trasportavano il missile per conto del Fplp non erano solo sodali della causa palestinese, si sentivano fratelli politici del Fronte. Il movente dei filopalestinesi italiani più radicali, tradotto in soldoni, sarebbe stato esposto così: noi sosteniamo i movimenti palestinesi non solo perché pensiamo che abbiano diritto a riprendersi la loro terra, ma perché su quella terra vogliono fare la stessa cosa che vogliamo noi qui. La rivoluzione. Il comunismo. Infatti quel grido che oggi nelle piazze degli studenti pro Pal suona “Palestina libera!”, un tempo aveva un secondo verso: “Palestina rossa!”, ormai cancellato dalla storia. La storia cancella. La storia cambia tutto, e cambiamo anche noi.

Torniamo a Torino. Nell’aula dell’università occupata gli studenti accovacciati ascoltano l’imam che glorifica il jihad. Non il jihad coranico, la tensione morale alla purezza religiosa. Proprio il jihad guerra santa, la distruzione fisica degli infedeli. Non vola una mosca. Non so quanto gli studenti dell’università di Torino che ascoltavano rapiti – loro, per fortuna, solo simbolicamente – le parole dell’imam jihadista sappiano di lodo Moro, Habash e missili a Ortona. Non che sia fondamentale saperne, si può vivere bene anche senza. Me lo chiedevo però davanti all’evidenza di quanto è accaduto nel volgere di qualche decennio e un paio di Intifada: là dove un tempo il movente politico della solidarietà filopalestinese era la comunanza di obiettivi, oggi è l’adozione degli obiettivi altrui. Ieri prevaleva il vincolo ideologico, oggi il senso di colpa, l’espiazione di un presunto privilegio. Non sto dicendo che prima fosse meglio e ora peggio, e tanto meno il contrario. Certo prima c’era una logica politica, adesso una logica mistica: ragazze e ragazzi che pendono dalle labbra di un religioso il quale, in sostanza, li sta arruolando in una guerra santa della quale potrebbero essere potenzialmente anche le vittime future. Il che sarebbe comunque un modo eccellente per espiare il privilegio bianco occidentale. Giovani che si abbeverano alle parole di qualcuno che, a dispetto di quel che loro probabilmente pensano, non sta condividendo un obiettivo, li sta catechizzando. Li sta sottomettendo, su loro richiesta. Sottomissione. Come le sconvolgenti immagini delle studentesse americane che si inchinano a pregare verso La Mecca (non userò l’argomento facile su come verrebbe accolto un prete nell’università italiane occupate, è un po’ grossolano, sebbene come tutte le cose grossolane abbia una sua innegabile efficacia). Sottomissione. Il fatto che ci abbia scritto un romanzo uno strambo signore francese un po’ reazionario non significa che sia reazionario prenderne atto (parentesi su Fallaci-Habash: dopo l’uscita dell’intervista l’ufficio comunicazione del Fplp ne contestò alcune parti, che Fallaci aveva però registrato, e bollò la giornalista come “fascista”. La replica di Fallaci: “A tale volgarità rispondo soltanto che quando il dottor Habash non faceva nulla per dimostrarsi antifascista e il suo popolo andava così bene d’accordo coi nazisti, io ero una bambina con le trecce che combatteva il fascismo nella Resistenza”).

Nessuno dovrebbe essere così stolto da scambiare la sacrosanta difesa dei civili di Gaza dalla rappresaglia dell’esercito israeliano con la condivisione del jihad. Nelle parole di quell’imam c’è anche la rivendicazione del 7 ottobre. Di ogni possibile 7 ottobre passato, presente e futuro. Negare che sia così è negare l’evidenza, anche se ormai sono sempre più anche quelli che non si prendono nemmeno il fastidio di provare a negarlo.

[di Stefano Cappellini – La Repubblica]