La scultura di Alessandro Marzetti
Mi sono più volte chiesto quale fosse il significato vero, quale il “rimosso ritrovato in piuma di un’alba, bianca, come la neve candida del Soratte” di quella ragazza seduta su un muretto, in posa da campagnola bella, da signorinella in guardia, affacciata per vedere, lungo la strada polverosa, arrivare il fidanzato militare, il partigiano vittorioso…
Poi ho capito che semplicemente lo scultore raccontava la solitudine, l’attesa (della vita, dell’amore), il sogno dei sogni fatto, nella lontananza siderale!, nella notte che protegge dalle madri guardinghe e dai padri distratti dal lavoro e dalla lotta. Sculture sospese, interpretate come orme di ricordi, vestigia di sentimenti eterni, citazioni di una vita solo apparente/mente ripetitiva e priva di complessità.
La scultura, onirica, di Marzetti, affiorata dalle parole calde di racconti antichi, dalle veglie vissute in luoghi che non esistono più, ha la delicatezza della poesia, la velocità dell’arguzia, la levità di una burla dentro l’intarzio di un complesso aforisma. Del resto, il gioco ossimorico tra potenza e leggerezza, il lavoro sui contrasti, la ricerca di una verticalità appartengono a quella straordinaria avventura intellettuale che implica la volontà di sottrarre un’opera d’arte alla schiavitù del suo “radicamento” alla terra, per elevarla alla libertà del volo. Questa è in definitiva quella ricerca di evasione possibile che è facilmente individuabile nei lavori di Alessandro che sono stati definiti “disegni scultorei”.
Ci troviamo difronte a forme “di alabastro tagliato, scavato, sventrato, fino a formare trame filiformi che si dipanano nello spazio a racchiudere porzioni di vuoto”. Aspetti che rimandano, da un lato, ai caratteri di un materiale, l’alabastro, che è pietra liquida, una memoria confusa della presenza del mare, il sogno di un mondo còlto nel suo passaggio, drammatico e caotico, dalla potenza all’atto della creazione, dall’altro, alla centralità dell’assenza come invito all’immaginazione, al nascondersi, come accade in Magritte, di mondi, di elementi, di labirinti di concetti e di realtà dietro quello che è la rappresentazione.
Questo rapporto profondo tra concettualità, proposta contenutistica e amore per la materia, l’alabastro o altre pietre del monte volterrano (il panchino) , è il denominatore comune di moltissimi artisti volterrani, assai differenti per collocazione storica e gusto estetico. Come se in loro, nella complessità dello sguardo, nella conoscenza profonda della storia dell’arte, nei molteplici riferimenti presenti, come fonti consapevoli o come riflessi visivi, nel loro lavoro, permanesse quell’incanto, quella meraviglia di fronte al materiale scelto, ponderato, accarezzato, levigato, tipici dei primi artieri, degli antichi artigiani, dei maestri delle vivaci botteghe rinascimentali. La carezza sulla pietra, sul legno, sul cuoio come congedo, saluto, omaggio a un materiale divenuto oggetto, realizzazione di un progetto, l’ho vista molte volte fare nello studio del mio, e di Marzetti, Maestro Mino Trafeli.
Il rapporto tra la materia algida e silenziosa e il suono, quello che è suggerito dalla versatilità dei pensieri, quasi una contrapposizione, una antitesi, in Marzetti trova un equilibrio sistemandosi, coniugandosi in un tempo sospeso, oltre il passaggio delle epoche e del divenire costante della vita. Per questo, io avverto il linguaggio di Alessandro come ricco di richiami alla realtà volterrana, alla sua incantevole poetica bellezza, al suo essere, nello stesso tempo, come bene ha raccontato d’Annunzio, claustro e vertigine aerea, labirinto di vicoli stretti e improvvise visioni di fughe verso orizzonti che trasportano lo sguardo verso “infiniti silenzi e profondissima quiete” producendo contemplazione creativa. Per questo, per me, Marzetti è lo scultore di sogni inconsapevoli, suggeriti dalla sua centralità dentro la meraviglia del vivere.