Joe & Donald: politica di facciata
Nel dibattito di Atlanta (andato in onda sulla Cnn, giovedi 27 giugno) Joe Biden & Donald Trump, accompagnati (dietro le quinte) dalle consorti – Jill Tracy & Melania Knavs – non hanno dato il meglio. Cosa c’è in ballo? Qualcuno dice addirittura: «l’interesse del Pianeta». Gli USA, infatti, costituiscono il punto di riferimento economico (sia pure quasi allo stesso livello della Cina), morale e politico dell’intero globo. Ma, in realtà, le elezioni presidenziali che si terranno tra quattro mesi rappresentano, prima di tutto, la soluzione ai problemi degli stessi Stati Uniti e, ancora, politicamente a quella specie di “autoritarismo” che si sta avvertendo montare in Europa e al di là dell’Atlantico. La crescita esponenziale dei movimenti e dei partiti politici che si rifanno a ideologie conservatrici (afferenti all’area che potremmo chiamare dell’estrema destra) impone una riflessione minima. E questa riflessione dovrà porla in atto, sicuramente e prima di tutti, il nuovo presidente degli Stati Uniti.
Tuttavia appare difficile che a mettere in atto una simile riflessione possa essere Donald Trump, espressione controversa del Partito Repubblicano che ha disseminato la politica americana di fermenti autoreferenziali, egopatici, a volte violenti, e centrati su una personalità oscillante tra il culto di una politica intesa come reality-show e soluzioni protezionistiche (i dazi imposti alla Cina a ridosso dell’elezione di Trump nel 2017) che avrebbero dovuto “spezzare” la globalizzazione economica, ma non hanno impedito alla Cina di crescere ancora.
I problemi sul tappeto non sono, purtroppo, solo questi: due guerre d’interesse sovraregionale; il presente funestato da una crisi economica che sembra imminente; il cambiamento climatico e il relativo disastro ambientale; l’emergenza del terrorismo; la fine della classe media, ormai del tutto erosa e proletarizzata; il taglio allo stato sociale e ai sistemi del welfare; le difficoltà di una sinistra incapace, quasi ovunque, di trovare un baricentro.
Da questo punto di vista dichiarare che Joe Biden, nel corso del duello televisivo, è apparso robotizzato, afasico, incoerente, incapace di finire le frasi, col volto inespressivo e assente e che Donald Trump abbia raccontato delle bugie, col broncio da mastino da esporre in ogni occasione di difficoltà, che ironizza sui problemi dell’altro non vuol dire capire perfettamente quella che è la «posta del gioco». Anzi tratta soltanto le questioni politiche come uno spettacolo conchiuso nel fine televisivo.
Eppure non si tratta di capire chi è stato più bravo, più simpatico o più presente. Si tratta di capire se le due parti politiche americane sono ancora in grado di pensare idee per un futuro sereno e collaborativo o no. Non si tratta della scelta fra due candidati da effettuare in base alle variabili dell’età o della salute fisica. Si tratta della scelta fra due candidati in base alla competenza, agli argomenti, ai contenuti, alle proposte di soluzione rispetto ai problemi di cui si è detto, alla visione che ognuno di essi dovrebbe avere rispetto al futuro degli Stati Uniti.
Ma se si parla di “contenuti” ecco che arrivano subito i “problemi”. La politica si è spettacolarizzata e personalizzata, conta più una giacca firmata che la proposta di restaurare almeno un pezzetto di Welfare; conta più un grugnito davanti alla risposta di un avversario che i termini di una “visione globale” rispetto alla soluzione dei conflitti in corso.
Ecco allora che il discorso si potrebbe fare più ampio, si dovrebbe estende oltremisura, amplificarsi. E diventerebbe addirittura un discorso sulla weltanschauung che domina l’occidente. Ma più modestamente dico: di fronte alle difficoltà di Biden e alla prosopopea di Trump, di fronte all’età (come tema da dibattere nei giornali, nelle televisioni e nell’arena politica) e alla strafottenza (stato d’animo, più che contenuto politico) ci si accorge che queste elezioni presidenziali americane, dismettendo gli argomenti e prediligendo la forma, ci conducono a una considerazione da intessere sul rapporto tra il misurato e l’eccedente?
Contenuto, infatti, vuole dire racchiuso, ma la forma, non avendo più appigli, è sproporzionata. Dunque filosoficamente (ma anche politicamente) oggi siamo alle prese con un affermarsi dello “smisurato”. Si dismettono i contenuti, perché c’è un di troppo. Ma un voto americano basato sull’eccedenza, sull’esagerazione, vuol dire immediatamente dimenticare il garbo, la moderazione e la gentilezza. Per cui questa campagna elettorale che, al momento vede impegnati Biden e Trump (vedremo se Biden lascerà per presunto Parkinson e Trump per beghe processuali), dal punto di vista della cronaca giornalistica che la racconta, diventa lo scontro tra due candidati le cui proposte politiche non hanno più nulla a che vedere con il cuore della società del loro Paese, perché gli Stati Uniti non sono fatti soltanto di incivili estremismi. C’è ancora una borghesia (piccola o media) misurata. Ma se i politici e i commentatori non privilegiano più i contenuti seri tutto si attorciglia intorno a questioni superficiali che allontanano la maggioranza della popolazione (classi povere e classi ricche) dal voto elettorale. Così la politica implode. Una volta diventata soltanto “facciata” la politica scivola nell’irrilevanza e tutto resta al soldo dell’economia. La globalizzazione stessa è, prima di tutto, un fatto economico. Ma in un simile mondo nel quale qualcuno celebra candidamente la «fine della politica» il mondo pare sempre più esposto a nuovi totalitarismi.