21 Novembre 2024
Sun

Paolo Buchignani, La spilla d’oro. Memorie da un secolo sterminato. Arcadia edizioni 2024, pag. 430

“Mestiere difficile, quello dello storico, – scrive Paolo Buchignani – sempre in allerta per sfuggire alla duplice e opposta tentazione delle astratte, moralistiche condanne e delle facili assoluzioni, sempre attento a capire prima di giudicare, mosso dalla ricerca di una verità che mai si raggiunge del tutto, ma verso la quale si deve tendere con mente aperta e onestà intellettuale”.  Il suo romanzo storico, La spilla d’oro. Memorie da un secolo sterminato, dimostra la serietà e la profondità della ricerca realizzata attraverso documenti scritti, contatti personali e interviste, e soprattutto con il recupero di memorie di famiglia e narrazioni di persone vicine, di cui è stato fatto tesoro.

Il pretesto nasce nell’isolamento forzato imposto dall’emergenza Covid nel 2020, quando il caso mette sotto gli occhi di Lapo, il protagonista in cui si cela lo scrittore, “un vecchio album polveroso, dimenticato da anni nel fondo di una cassetto”, con foto in bianco e nero di cui alcune superano i cento anni. La ricostruzione di un secolo di storia comincia da una foto datata 1919, con una donna vestita di nero che ha accanto a sé un bambino piccolo: è la nonna Esterina, vedova a ventotto anni del marito Isidoro, tornato dalla guerra con i polmoni bruciati dal gas e morto di lì a poco. Nel ’14, quando nasce Orlando, che è il padre di Lapo, Esterina lavora alla Manifattura tabacchi in città, e porta con sé anche il neonato che rimane nell’incunabolo, a cui va a dare il latte; è una donna che ha frequentato tre classi elementari – un privilegio per quei tempi- che saprà affrontare e difendersi negli anni a venire con determinazione e coraggio, in mezzo alle violenze fasciste e durante la seconda guerra, con tutto il male che ha portato. Del resto la spilla d’oro dalla testa rossa serviva a Esterina a fermare uno scialle che metteva sopra un tailleur nero quando andava al Teatro del Giglio ad ascoltare Puccini, soprattutto la usava per difendersi dai molestatori che allungavano le mani nel buio del loggione.

Buchignani ricostruisce e racconta tutti gli eventi del ‘900 a livello nazionale ma focalizzando l’attenzione sulla lucchesia, sulla città, sui boschi che coprono i colli, sui paesi delle campagne vicine, sul Serchio che le attraversa. E sulla vita e le disgrazie della sua gente, conosciuta o raccontata dalla nonna o dal padre Orlando, durante gli eventi più tragici, nelle menzogne, nelle spedizioni punitive del fascio, nel plagio delle menti fatto dalla cultura fascista, nelle stragi naziste che hanno disseminato di cadaveri anche le strade; anche nella presenza di un pensiero dissidente silenzioso, di chi riteneva le ideologie comuniste liberatorie e portatrici di una vera rivoluzione contro la  borghesia capitalista che appoggiava il regime.

Se il narratore crea personaggi, ambienti, situazioni, con precisione e concretezza tanto da farceli vedere e vivere, lo storico indaga sulle  ideologie che hanno caratterizzato il secolo scorso, sulle contraddizioni e le verità scoperte tardi, sulle posizioni filofasciste di un gran numero di nostri intellettuali e artisti, sulla loro delusione verso al fine degli anni trenta, ma anche sul dopoguerra con le conseguenze della amnistia Togliatti che fece tornare pulite tante persone macchiate di crimini durante il ventennio – i servi del fascio convertiti alla DC in ventiquattro ore.

Restano impresse immagini di testimoni di violenze fasciste eliminati brutalmente, di sacerdoti antifascisti spiati durante l’omelia, la crudeltà del federale lucchese Carlo Scorza, le reazioni della gente alle notizie della guerra, lo strillone che vende giornali per le strade di Lucca,  le sigaraie in sciopero, un laboratorio artigiano dove finge di lavorare un professore ebreo costretto a nascondersi dopo le leggi razziali, un giovane cresciuto alla cultura fascista che amava ciecamente il duce e sarebbe morto per lui: “Tu lo sai cos’è la guerra? […] – gli grida in faccia un amico – Io lo so, perché l’ho fatta; tre anni di trincea, fra sangue, merda e pidocchi, con la morte sempre in agguato. Ho visto gente fatta a pezzi con le budella fuori, ho viso moribondi che invocavano la mamma”. Poi l’esultanza della gente di paese alla notizia della caduta del fascismo e le previsioni nere di chi diceva che il peggio doveva ancora venire; i neodiplomati convocati al Teatro del Giglio invitati ad arruolarsi per la Patria e il fuggifuggi generale, gli sfollati, la fuga rischiosa verso casa dopo l’armistizio, i partigiani sulle colline e nei boschi della lucchesia, chi riesce a sabotare un automezzo di trenta camicie nere. E le donne pietose che raccolgono e seppelliscono i morti. Poi le stragi disseminate dovunque, le più note  quella di Sant’Anna di Stazzema e della Certosa di Farneta, proprio quando il tedeschi in ritirata erano più inferociti.

Buchignani ricostruisce i decenni del secondo dopoguerra, gli anni di piombo, i tentativi di golpe falliti, e avanti verso i tempi nostri. Nelle sue pagine si ritrova il calore di tradizioni e riti dimenticati, quelli che tenevano unite le comunità: si vedono le processioni che attraversano i paesi per le Rogazioni – le benedizioni dei campi -, i viaggi in calesse, la donna di paese che corre a tutte le ore dalle partorienti, il ragazzo che va a pescare le anguille a mazzacchera nelle pozze del fiume. Si respira la cultura del caffè di Carluccio, poi Caffè Caselli, con il Pascoli che entra e “sembra un contadino vestito a festa”; si capisce l’amore per cultura che nutre il padre Orlando e il coraggio di qualche insegnante che educa alla libertà; si conosce l’eremita o matto del macchione che ne ha passate tante.

Chi ha sulle spalle parecchi decenni di vita, in queste pagine legge un po’ della propria storia e non può evitare un sorriso quando ritrova la regola che ha conosciuto, a cui nessuna donna si poteva sottrarre, quella di entrare in santo, cioè ottenere la benedizione e il perdono del sacerdote dopo il parto, prima di poter rientrare in chiesa. Come se una madre fosse sporca, impura. Ma la spilla d’oro che serve per difendersi assume anche un significato molto più esteso, perché porta il pensiero alle spaventose guerre attuali, che il tempo e l’analisi scrupolosa degli storici cercheranno di definire nelle cause, negli aspetti, nelle contraddizioni,  fondamentalmente nella cieca violenza disumana.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.