Il tramonto della democrazia
Nel 1932, il giurista tedesco Carl Schmitt diede alle stampe il suo celebre saggio Il concetto di «politico». La distinzione tra un amico e un nemico identificò, da quel momento in poi, lo spazio nel quale si veniva a produrre l’attività della politica. In definitiva, perché ci fosse azione politica era necessario individuare un nemico (esterno) intorno al quale si produceva, quindi, l’operato dello Stato, o delle istituzioni in generale. Ma la politica non è solo democratica. Può essere anche monarchica o aristocratica. Nel caso della monarchia il nemico era da identificarsi in chi-non-era-il-regnante; nel caso dell’aristocrazia (governo dei migliori) il nemico erano quindi i “peggiori” (qualsiasi cosa possa significare questa affermazione in campo politico). Mentre per la democrazia, il nemico era chi-non-faceva-parte-del-popolo (della gente), quindi le istituzioni stesse, il governo. Oggi diremmo le élite meritocratiche e tecnocratiche. Parafrasando Oswald Spengler, possiamo dunque dire che oggi ci troviamo in una fase di «tramonto della democrazia»?
Si è parlato e si parla non solo di post-democrazia, di postmoderno e di post-verità (Gianni Vattimo diceva: «Oggi siamo tutti postumi, finanche di noi stessi!»). Si parla di governo basato sulle performance piuttosto che sui contenuti; di un neoliberismo che tende ad abbattere tutti gli attriti (in termini di intervento sull’economia) che la politica dovrebbe porre in essere per mantenere, per esempio, sostenibile la questione del surriscaldamento del Pianeta. Si parla di una middle class del tutto erosa nelle sue caratteristiche socio-politiche e che si rifugia in questioni identitarie piuttosto che afferenti ai diritti sociali. Si parla di tutto quanto questo, ma è vero che la democrazia è in pericolo?
L’autocrazia è quella forma di governo depositaria di un potere sciolto da ogni legame, quindi da ogni attrito. Si tratta, in questo caso, di un potere assoluto che contrasta, in definitiva, coi contrappesi democratici delle elezioni politiche prima di tutto, ma anche della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, della libertà di stampa, ecc.
La nostra domanda dunque potrebbe diventare la seguente: le nostre moderne democrazie occidentali stanno davvero per trasformarsi in autocrazie?
La questione si può far risalire al tema dei vincoli, degli attriti, degli obblighi e dei segnali di divieto. Davvero l’economia globalizzata sta non solo riducendo il mondo a un punto (comprimendo lo spazio e riducendo il tempo a tempo-reale, just in time) ma sta anche rendendo il ruolo dei governi solo quello di semplici notai, esecutori, amministratori di decisioni prese da impersonali consigli di amministrazione e da Ceo senza scrupoli? In sostanza, quanto ancora la politica, di suo proprio, ha da dire rispetto all’economia?
I cittadini hanno da tempo deciso che il nemico schmittiano era la casta. E hanno affidato la guida dei loro paese, sempre più, a partititi populisti. Se a questi partiti vengono aggiunti quelli sovranisti o identitaristi o protezionisti, quel che ne viene fuori è una richiesta di contare qualcosa all’interno di un sistema politico che sembra essere autoreferenziale, come quella stessa Intelligenza Artificiale della quale la tecnica moderna (che è sempre un precipitato di quella scienza che parte da Newton e arriva ad Alan Turing) si è fatta interprete al servizio delle diverse Corporation planetarie.
Ma per avere voce in capitolo occorre presentare un reale progetto di cambiamento. E quei partiti populisti o sovranisti dell’ultim’ora hanno solamente declinato la loro proposta in termini di conservazione e accentuazione delle preferenze dei cittadini che, come in un immenso like di qualchesocial network, si vogliono sentire più rassicurati che svegliati o invitati a cercare qualche soluzione personale ai problemi. Dunque, ne deriva che il «politico» oggi (con una sinistra che, però, in qualche maniera sta risorgendo) è lo spazio nel quale si incontrano e si scontrano i cittadini e le loro preferenze confermate in ogni caso dall’intero sistema (chiamato oggi: l’algoritmo). Per cui siamo di fronte a una nuova tautologia. La politica cortocircuita su se stessa e gli elettori ugualmente. In questa situazione, la politica non ha più la possibilità di individuare un nemico. Quella che ne viene fuori è la società degli amici, non solo di Maria De Filippi, ma anche di Facebook…
In assenza di un nemico identificabile il concetto di «politico» viene perciò meno. E dunque ecco esistere le condizioni esatte per potersi presentare qualche forma di autocrazia. Per far tornare la politica a fare la politica occorrerebbe perciò un qualche clinamen lucreziano. Ovvero, un movimento diagonale e del tutto imprevedibile che riuscisse a rompere le due tautologie di cui si diceva. Il «perturbante» di cui parlava Sigmund Freud. In definitiva, la messa in discussione di se stessi e delle proprie preferenze individuali, dei propri gusti, dei propri «mi piace».
Mettersi in discussione. Forse è troppo. Ma quantomeno, un dubbio.