Elena Mearini, A molti giorni da ieri, Marco Saya Edizioni 2024, pag. 74.
I versi di Elena Mearini conquistano con le immagini che evocano, con le storie che nascondono, con la bellezza del linguaggio metaforico e degli accostamenti semantici, a cominciare dal titolo della raccolta, A molti giorni da ieri, che nella evidente contraddizione indica il tempo come elemento trasversale: ieri, così vicino e così lontano, perché il tempo che si è frapposto fra il nostro presente e un evento trascorso sembra essere volato via in un frullo, essere soltanto ieri. Ne deriva una sensazione di continuo presente: “e il tempo perde / il prima e il dopo / allora si resta / senza più anni / con i numeri caduti tutti / dalle nostre tasche”. Ma è un “ingranaggio” che fa male, graffia, non è un amico: “Lo senti il tempo/ non smette mai i suoi graffi / sulla superficie / delle cose dei giorni”.
Il linguaggio di Elena Mearini è lieve e allo stesso tempo materico, compaiono terra, fango, legno, trucioli, formiche, briciole di pane, pozzanghere, spine, croci, sabbia, cenere, sangue: “la tua voce / sa di radice e terra / dice la veglia composta / della pietra madre / l’attesa solenne / del masso padre”. La concretezza della materia dà il senso dell’esserci, di non appartenere ancora al buio e al silenzio, di non essere ancora contenuti nella parola che fa male pronunciare.
Ci sono assenze che lasciano vuoti che inghiottiscono, sono strappi che lacerano la carne con tagli violenti, del resto “siamo passaggi brevi/sulla linea del tempo” e non esistono armi di difesa quando arriva “l’asso nero sul tavolo della sorte” a sottolineare la nostra precarietà: “Così noi stiamo / sul cornicione del giorno / senza becco né ali / nell’insufficienza della specie nostra”.
Ma la parola poetica può dare voce all’impossibile a dirsi, può trattenere il tempo, fissandolo qui e ora, perché la parola “cerca di scampare alla morte”, scende nel silenzio in cui si aggirano presenze leggere, coglie l’invisibile che rimane in mezzo a noi, l’inudibile che ci circonda: “Oggi non ricordi le parole / da un’ora sveglio / tra le cose senza nome / ti aggiri per casa / con la pronuncia che giace / come morta in bocca”. La parola dice la nostalgia di volti che lentamente perdono le linee note che si cerca invano di ritrovare in un volto estraneo, ma ci sono momenti in cui la parola suona come superflua, quando il dire appare “tutto una rivalsa del silenzio”.
Il buio e il silenzio si contrappongono alla bellezza dei gesti del quotidiano, preziosi nella loro semplicità: “eppure tu annaffi le tue piante – nella goccia che cade dal balcone alla strada ricominci il mare”. Sono quelli che dimostrano che ogni giorno è una conquista, per questo “quando s’incontra la vita / occorre restarle addosso”. Vedere la prima luce che s’accende nella casa al mattino è un privilegio finché si ripete, è la vita da vivere ancora, rinnova una vittoria: “Impara l’avvio delle cose / il punto piccolo di partenza / che fa silenzio / che fa risveglio / impara l’esordio del tremore / quando la prima luce / nella casa s’accende / la prima foglia / sull’albero oscilla / metti a memoria la nota minore / ripetila quando la voce muore”.
In mezzo a una umanità ferita connotata dalla violenza -“è il verso ferito delle cose / che perdono poesia dal taglio” – definita da un registro linguistico che sa farsi più duro, rimane il ricordo di gesti dolorosi – “ti siedi per non alzarti più” – e quello vitale di gesti perduti: “quando era onda lunga la nostra falcata / quando l’osso bussava alla carne / e tu aprivi la porta del pane”. Traspare la nostalgia di percorsi incompiuti, dei segni di un’epoca quando “il futuro era / una gettata di fuoco nel cielo”, senza tuttavia rinunciare alla speranza, pur con “le tasche così piene di niente”, che dal futuro possa arrivare un segno buono, senza smettere di cercare “della cenere il grano rosso / a smorzare il buio che ci resta”.