Deleuze: una strana piega
A Parigi, il 18 gennaio del 1925, nasceva Gilles Deleuze. Probabilmente, a un secolo esatto dalla sua venuta al mondo, si può cercare di fare un bilancio della sua opera. Jean-Luc Nancy, a questo proposito, ha scritto che «Piuttosto che una filosofia di Deleuze collocata in qualche parte in un panorama o una episteme dell’epoca, ci sarebbe una piega deleuziana del pensiero»[i]. Questa forma curva, arcuata, ripiegata in qualcosa, non è solo la protagonista del saggio che Gilles Deleuze ha dedicato a Leibniz nel 1988[ii], ma anche della grammatica teorica che sorregge la sua stessa esistenza oltre che ovviamente le sue più grandi acquisizioni filosofiche.
Ma che cosa significa avere di fronte un filosofo della curva, della sinuosità e persino dello strappo?
Significa, in fin dei conti: essere alle prese con il progetto di una speculazione vissuta da outsider, da naïf, da filosofo pop, oltre che da vero e proprio protagonista dell’underground, dell’aperto, del fondo cavernoso delle cose, del flusso ininterrotto di eventi, cifre, zone, linee, spazi di faglia, orizzonti degli eventi e piani inclinati che tracciano i contorni di quella specie di buco nero che, una volta superato, appunto, l’orizzonte degli eventi, conduce alla contingenza.
Ci sono molte pieghe all’interno del percorso intellettuale di Deleuze. Dopo la prima opera licenziata per la stampa[iii] nel 1953 il filosofo piega la propria riflessione a un silenzio di otto anni durante in quali non pubblica (quasi) nulla. Egli si trova al centro di un dibattito pubblico che risente fortemente dell’influenza di Sartre e poi, in seguito, dello strutturalismo, mentre sta montando fortemente la moda heideggeriana di Essere e tempo ma, del pari, riesce svincolarsi da ognuna di queste grandi case filosofiche con l’appoggio dell’amico Féliz Guattari alla ricerca di macchine desideranti e di corpi senza organi, oltre che di rizomi.
Condivide vita e professione con Hyppolite e poi con Foucault ma anche con Klossowki, Althusser, Barthes, Lyotard, Derrida, Blanchot, Baidieu e tutto il mondo intellettuale parigino ma se ne sta prevalentemente in provincia, lontano anche dai clamori del maggio francese.
Un’altra strana piega prende il suo stesso pensiero: dallo studio attento dei classici della filosofia passa alla formulazione di un pensiero suo proprio e, infine, si dedica al cinema, cioè all’estetica delle immagini[iv]. Perché tutte queste pieghe? E quanto ci è rimasto oggi della messa in piega di un pensiero che stabilisce un ondulazione artificiale (né idealistica né realistica) ai capelli di una contingenza così tanto difficile da interpretare?
Gilles Deleuze è stato probabilmente il filosofo che più si è avvicinato all’immanente, all’immediato, alla viva carne della realtà intesa non nel senso di qualcosa rispetto a cui un soggetto umano ne deve parlare. Tutt’altro. La realtà, per Deleuze: andava fatta parlare. E al fondo di questo discorso, finalmente oggettivo, il filosofo ci ritrovava quindi desideri e possibili liberazioni di desideri. Il flusso ininterrotto delle cose del mondo – rispetto al quale tutte le narrazioni hanno sempre cercato, segmentandolo, di rintracciare un senso – adesso diventa fine a sé stesso. In questo modo, è evidente, si leva via di mezzo l’uomo[v].
Oltre che il contingente, Deleuze analizza anche l’impersonale, il neutro, il molteplice e il disordinato. Tutto quanto il nostro mondo c’è; è ovvio. Ma viene fuori per concatenamenti botanici, cristalli di vita, fratture, incrinature: linee di fuga rizomatiche che si apparentano direttamente con le ultime scoperte della fisica quantistica oltre che con quella filosofia della complessità[vi] della quale Edgar Morin si è fatto portabandiera.
Il salto all’ in giù è, infatti, quello che la piega deleuziana compie. Verso l’infinitamente piccolo e la sua natura del tutto controintiuitiva: entaglement (esattamente come rizoma) vuol dire che non esiste nessuna unità centrale della realtà e nessuna continuità o determinismo lineare. Al fondo del fondo ci si connette a casaccio. E, diversamente dai frattali di Mandelbrot, ogni tratto della realtà non rinvia a nulla di precedente che abbia la sua stessa natura. La piega ha dunque condotto nella zona dove contano le differenze[vii], le intensità (piuttosto che le estensioni), il corporeo, il plurale, l’eccentrico, l’esorbitante e l’eccessivo e nella quale la «ripetizione»[viii], chissà in che modo, è capace di generare cose e uomini. In definitiva, se è vero che siamo nel periodo in cui in Italia contano le «tre K» (Diabolik, Kriminal e Satanik) e nei quali Cossiga veniva scritto sui muri col «K» e in cui si tratta filosoficamente di smarcarsi dalle «tre H» (Hegel, Husserl e Heidegger), Gilles Deleuze porta sulla scena le «tre C»: contingenza, concatenamento e cedimento (cioè piega).
Si diceva che Deleuze è un filosofo dell’apertura. Un filosofo della sonda e dello scavo, insomma; cosa che lo porta a confrontarsi anche con Carmelo Bene[ix] ma anche con Jean-Luc Godard, oltre che con i movimenti e i collettivi del 1968 (che stavano prepotentemente in cima ai pensieri di Félix Guattari), la schizofrenia e il capitalismo nella speranza, se vogliamo magari anche del tutto, questa sì, pop, di una qualche rivoluzione da qualche parte nel mondo rispetto alla quale «Quell’oscuro oggetto» non siano i bisogni dell’uomo (sempre orientati e definiti dalla ricerca di determinati mezzi e dal conseguimento di determinati fini) ma la «macchina desiderante» che proviene dalle viscere stesse della realtà e rispetto alla quale la politica stessa deve abdicare.
La piega conduce al cuore stesso di una rivoluzione del tutto inevitabile: il desiderio nell’estrema apertura – che è anche un apertura nei confronti della gabbia della storia della filosofia accademica e istituzionale – si produce da sé e va a cozzare contro un capitalismo – del resto, anch’esso ingabbiato in «narrazioni» di profitto, sfruttamento, plusvalore e formazione di classi sociali – ristretto, dal braccino corto, dallo sguardo limitato. L’economia e la politica non hanno valorizzato le «capacità» (e quindi i desideri) degli esseri umani: ma hanno puntato sui bisogni, privilegiando solo la prima parte della definizione del comunismo di Karl Marx[x].
Gilles Deleuze, dunque, in questo centenario rappresenta per noi la figura di un cane sciolto della storia della filosofia. Il filosofo che, usando un linguaggio parodistico, paradossale, gutturale, fatto di cantilene, ritornelli, humor, ibridazioni, facendo parlare l’inconscio, il non detto e l’implicito, ci ha ricordato non solo che «il futuro è aperto»[xi] ma anche che noi stessi lo possiamo ulteriormente aprire soltanto desiderando di poterlo fare. Per Deleuze vale, dunque, in via definitiva il frammento 22b18 (dell’edizione Diels – Kranz) di Eraclito: «Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio»[xii].
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NOTE
[i] Jean-Luc Nancy, Le differenze parallele. Deleuze e Derrida, A cura di Tommaso Ariemma e Luca Cremonesi, ombre corte, Verona, 2008, p. 11.
[ii] Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Traduzione di Davide Tarizzo, Einaudi, Torino, 2004.
[iii] Gilles Deleuze, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, Traduzione di Filippo Domenicali, Orthotes, Napoli-Salerno, 2018.
[iv] Cfr. Filippo Domenicali- Polo Vignola, Deleuze. Filosofia di una vita, Carocci, Roma, 2023.
[v] «Ai giorni nostri, e Nietzsche anche qui indica da lontano il punto d’inflessione, si afferma non tanto l’assenza o la morte di Dio, quanto la fine dell’uomo»: Micheal Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Traduzione di Emilio Panaitescu, Rizzoli, 1998, pp. 411-12.
[vi] Edgar Morin, La sfida della complessità, Traduzione di Annamaia Anselmo e Giuseppe Gembillo, Le Lettere, Firenze, 2011.
[vii] In Jacques Derrida la «differenza» acquista una «a» anomala e diventa la «diffarance» volendo indicare non solo il differire nello spazio ma anche quello nel tempo. Cfr. Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Traduzione di Gianni Pozzi, Einaudi, Torino, 2002.
[viii] «Sono dunque in opposizione la generalità, come generalità del particolare, e la ripetizione come universalità del singolare» scrive Deleuze a un certo punto di Differenza e ripetizione, Traduzione di Giuseppe Guglielmi, Raffaello Cortina, Milano, 1997, p. 8.
[ix] Cfr. Carmelo Bene- Gilles Deleuze, Sovrapposizioni. «Riccardo III» di Carmelo Bene, «Un manifesto di meno» di Gilles Deleuze, Traduzione di Jean- Paul Manganaro, Quodlibet, Macerata, 2012.
[x] E’ quasi inutile citare la sentenza marxiana, del resto attinta direttamente dagli Atti degli appostoli, e contenuta nella Critica del programma di Gotha: «In una fase piú elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!»; da Karl Marx-Friderich Engels, Opere scelte, A cura di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma, 1969, p.962.
[xi] E’ il titolo di un volume scritto a quattro mani da Kar Raymund Popper e Konrad Lorenz come esito del colloquio svoltosi tra i due ad Altenberg e pubblicato in Italia da Bombiani con la traduzione di Dario Antiseri nel 2002.
[xii] Ora in I Presocratici, A cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2006, p. 347.