3 Marzo 2025
Sun

Francesco Brancati, L’assedio della gioia, Editoriale Le Lettere, 2022, pag. 102. Prefazione di Massimo Gezzi.

Si può rimanere a lungo a chiederci se è la gioia che ci tende un assedio o se siamo noi ad assediare la gioia, domanda che scaturisce dal titolo della raccolta di Francesco Brancati; ma non possiamo far altro che riconoscere che essa è “inconsistente”, transeunte, rapida a essere sostituita, che non è mai sicura, anche se alla gioia l’uomo tende: “Dopo la gioia il corpo sogna / il suo stesso desiderio, / la persistente diagonale del sogno”. Gioia che “prevede una sintassi lineare”, di cui fissare “le tracce prima che diventino resti”, come fanno i turisti giapponesi che fotografano “ogni cosa, i portici, le facciate, i camerieri / la prospettiva da via Fillungo”, perché “hanno compreso l’essenziale”. Allora sono piccoli i momenti che devono essere individuati, frammenti brevi e importanti: può essere la luce pacata della sera che scende, che batte alla finestra di una clinica mettendo in comunicazione col mondo di fuori: “Il bianco della sera avanza dietro /le siepi e i rovi del giardino, sorpassa / la collina per raggiungere il balcone / della clinica. Lei alzandosi dal letto / trascina con sé di fronte alla finestra /gli umori spogli della lentezza”.

Sono versi dove l’altro è una presenza costante, anche se un “assedio prepara la disfatta”: “all’improvviso appare / umile e forse screziato dal cielo, /dai pianti e dal sole degli anni /il sorriso senza colpa di lei”.

Proprio a rimarcare la brevità di questi momenti, nelle liriche di Brancati si incuneano immagini di sofferenza improvvise, come a sorprenderci: “…conosco / le voci che non muoiono, il rantolo del corpo ancorato / ai macchinari, la musica dell’ossigeno e il pensiero del respiro”. Sofferenza che non rimane legata alla individualità, ma diventa universale, accogliendo uomini, animali, ambiente: “un desiderio /intorpidito dalla vergogna per gli assassinati /che nello spazio di tregua imprecavano e tremavano / le pupille nel fondo del porco di dio del Mediterraneo”. Immagini cruente di “arti a pezzi, smembrati nell’esplosione / destinati a una veloce sepoltura / nel campo enorme di fronte la casa”. Ultime voci terrorizzate di animali eliminati per una malattia dilagante: “quando il camion rovescia / il terzo carico di bestie nella terra /il rumore dei grugniti è troppo forte / e potrebbe disturbare i vicini”.

Il registro linguistico di Brancati, in una raccolta a cui ha dedicato dieci anni, è materico, concreto, legato alla quotidianità, ai luoghi, agli oggetti, al corpo indagato in tutte le sue caratteristiche e potenzialità. Un linguaggio che suona duro: “fracassano tutte le ossa e gli occhi, grossi sassi, squarciano, bastoni, un guinzaglio che brucia”. Che parla di chiodi sulla carne come sintesi di dolore, quando si alza un grido di rifiuto e di rabbia: “basta / con i chiodi sulla carne basta / sempre con le teste sotto i tacchi sempre”, in questo “cortile di cemento della vita”.

Che cosa vale dunque? Per rispondere all’assedio, quello che ci nega la gioia, importante è ricordare, trattenere, valorizzare le piccole cose. “All’ospite il loro mondo appare fatto di piccole cose, concrete, minuscole e tangibili. Desideri, speranze, progetti e timori che si possono afferrare, elencare, intorno ai quali si può addirittura parlare”. E rimanere presenti alla realtà intorno a noi, grati sempre. Soprattutto non rinunciare alla parola, perché la poesia persiste nel tempo: “la poesia, il suo santuario pronominale / un silenzio che, immediato, persiste”. Tutto il resto scompare, fanno bene i turisti a fissarne le tracce con le foto: “E allora, ripetiamo / le pareti non trattengono nulla, / le case non significano altro / se non un riparo, per nostra fortuna”.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.