Francesco Brancati, L’assedio della gioia, Editoriale Le Lettere, 2022, pag. 102. Prefazione di Massimo Gezzi.
Si può rimanere a lungo a chiederci se è la gioia che ci tende un assedio o se siamo noi ad assediare la gioia, domanda che scaturisce dal titolo della raccolta di Francesco Brancati; ma non possiamo far altro che riconoscere che essa è “inconsistente”, transeunte, rapida a essere sostituita, che non è mai sicura, anche se alla gioia l’uomo tende: “Dopo la gioia il corpo sogna / il suo stesso desiderio, / la persistente diagonale del sogno”. Gioia che “prevede una sintassi lineare”, di cui fissare “le tracce prima che diventino resti”, come fanno i turisti giapponesi che fotografano “ogni cosa, i portici, le facciate, i camerieri / la prospettiva da via Fillungo”, perché “hanno compreso l’essenziale”. Allora sono piccoli i momenti che devono essere individuati, frammenti brevi e importanti: può essere la luce pacata della sera che scende, che batte alla finestra di una clinica mettendo in comunicazione col mondo di fuori: “Il bianco della sera avanza dietro /le siepi e i rovi del giardino, sorpassa / la collina per raggiungere il balcone / della clinica. Lei alzandosi dal letto / trascina con sé di fronte alla finestra /gli umori spogli della lentezza”.
Sono versi dove l’altro è una presenza costante, anche se un “assedio prepara la disfatta”: “all’improvviso appare / umile e forse screziato dal cielo, /dai pianti e dal sole degli anni /il sorriso senza colpa di lei”.
Proprio a rimarcare la brevità di questi momenti, nelle liriche di Brancati si incuneano immagini di sofferenza improvvise, come a sorprenderci: “…conosco / le voci che non muoiono, il rantolo del corpo ancorato / ai macchinari, la musica dell’ossigeno e il pensiero del respiro”. Sofferenza che non rimane legata alla individualità, ma diventa universale, accogliendo uomini, animali, ambiente: “un desiderio /intorpidito dalla vergogna per gli assassinati /che nello spazio di tregua imprecavano e tremavano / le pupille nel fondo del porco di dio del Mediterraneo”. Immagini cruente di “arti a pezzi, smembrati nell’esplosione / destinati a una veloce sepoltura / nel campo enorme di fronte la casa”. Ultime voci terrorizzate di animali eliminati per una malattia dilagante: “quando il camion rovescia / il terzo carico di bestie nella terra /il rumore dei grugniti è troppo forte / e potrebbe disturbare i vicini”.
Il registro linguistico di Brancati, in una raccolta a cui ha dedicato dieci anni, è materico, concreto, legato alla quotidianità, ai luoghi, agli oggetti, al corpo indagato in tutte le sue caratteristiche e potenzialità. Un linguaggio che suona duro: “fracassano tutte le ossa e gli occhi, grossi sassi, squarciano, bastoni, un guinzaglio che brucia”. Che parla di chiodi sulla carne come sintesi di dolore, quando si alza un grido di rifiuto e di rabbia: “basta / con i chiodi sulla carne basta / sempre con le teste sotto i tacchi sempre”, in questo “cortile di cemento della vita”.
Che cosa vale dunque? Per rispondere all’assedio, quello che ci nega la gioia, importante è ricordare, trattenere, valorizzare le piccole cose. “All’ospite il loro mondo appare fatto di piccole cose, concrete, minuscole e tangibili. Desideri, speranze, progetti e timori che si possono afferrare, elencare, intorno ai quali si può addirittura parlare”. E rimanere presenti alla realtà intorno a noi, grati sempre. Soprattutto non rinunciare alla parola, perché la poesia persiste nel tempo: “la poesia, il suo santuario pronominale / un silenzio che, immediato, persiste”. Tutto il resto scompare, fanno bene i turisti a fissarne le tracce con le foto: “E allora, ripetiamo / le pareti non trattengono nulla, / le case non significano altro / se non un riparo, per nostra fortuna”.