12 Marzo 2025
Sun

Paolo Ruffilli, Fuochi di Lisbona, Passigli Editori, Firenze 2024, pp. 172

Paolo Ruffilli è uno dei nostri autori più prolifici. Nella sua attività letteraria spazia tra poesia, narrativa e traduzione. Certamente il genere poetico è quello più ricco e in cui ha dato prova di maggiore incisività e perduranza. Tuttavia, questo nuovo romanzo per l’editore fiorentino Passigli, ambientato a Lisbona, in una Lisbona e in un Portogallo esposti al sole, all’amore e alle oscurità della vita, forti come soltanto i grandi Paesi e le grandi avventure sanno essere, riassume in sé la migliore risposta al fatto che spesso i poeti sono anche ottimi romanzieri (cosa che non è sempre vera nel senso contrario).

Questo Fuochi di Lisbona è, prima di ogni altra cosa, un interplay letterario fantastico tra Ruffilli e Pessoa, come ha anche notato Antonio Tabucchi, in una nota posta in fondo al libro.

Pessoa parla da queste pagine con una voce nuova. E l’autore addomestica la figura ingombrante, incantatrice e geniale del maestro lusitano con una sapienza di intreccio narrativo e di riflessione sui fatti dell’amore di rara perspicacia sentimentale.

Il contenuto della storia è piuttosto semplice da riferire. Siamo in presenza di uno studioso di che arriva in Portogallo per partecipare a un convegno sull’opera di Fernando Pessoa e, in particolare, sul carteggio amoroso di questo con la fidanzata Ophélia Soares Queiroz. A Lisbona il protagonista si mette sulle orme del poeta, ma più il tempo avanza e più le esistenze si intrecciano, in una mistura tra reale e percepito, tra sogno e materia che avvince il lettore. Il protagonista del romanzo conosce una donna di nome Vita e ripercorre con lei la parabola del rapporto di Fernando con Ophélia. L’identificazione è dietro l’angolo e il protagonista diventa Fernando, come Vita diventa Ophélia, in un gioco di specchi che sembra avere palcoscenico soltanto per loro due, se non fosse anche per la presenza dell’amico Henrique e della città che è l’altra magnifica attrice entro cui tutto si muove e si dipana. Per esempio: “Un indirizzo e un’ora. La casa di un’amica compiacente. Stavo salendo la scala ellittica di legno, nel nobile edificio ottocentesco sulla collina di Sao Pedro. Il verde della sghemba balaustra e delle porte faceva da cornice alla tinta naturale dei gradini”.

La tecnica narrativa utilizzata da Ruffilli mette insieme presente e passato, vite reali e vite letterarie. Ma qui c’è un di più, perché – se ci pensiamo bene – già il testo Lettere alla fidanzata di Pessoa era un doppio della realtà interpretata dal vecchio poeta. Quindi siamo di fronte a un gioco di specchi molto novecentesco e perciò di un livello culturale alto, rispetto a ciò che si trova solitamente nell’attualità della produzione romanzesca italica. A maggior ragione quando si capisce che i temi che scorrono nella storia raccontata sono esemplari di quasi tutti i passaggi canonici del sentimento amoroso, dell’educazione sentimentale occidentale. Dall’infatuazione, all’amore, alla disillusione, come cita Ruffilli, tramite Pessoa: “Non c’è felicità senza sapere. E tuttavia farne esperienza rende infelici. Sapere è uccidere, nella felicità come in tutte le altre cose. Ma non sapere è non esistere neppure”.

Personalmente ho un affetto particolare per questo libro, perché qualche anno fa, insieme a Marzia Maestri, abbiamo portato in scena al “teatro d’appartamento” proprio il testo delle missive d’amore tra Pessoa e Ophélia, con l’attore Dario Marconcini. Facemmo uno spettacolo intitolato Confessione alla fidanzata. E decisamente il gioco di specchi per me si moltiplica all’infinito, in una specie di innamoramento del testo. Perché, come diceva un passaggio che Wim Wenders riporta nel suo film Lisbon Story: “e se non ho avuto amore, io non sono niente”.