23 Luglio 2025
Sun

Stefano Lorefice, Naiver, Edizioni La Gru, 2025

La poesia di Stefano Lorefice si configura come un’esplorazione tenace e profondamente suggestiva dei territori liminali dell’esistenza, spaziando con rara intensità tra la concretezza materica del paesaggio alpino e le oscure, ma fertili, profondità della notte interiore. I suoi versi tracciano confini porosi tra il visibile e l’invisibile, tra la sedimentazione della storia personale e l’eco perturbante della cronaca collettiva, edificando un universo poetico di notevole coerenza e risonanza.

Uno dei cardini della sua opera risiede nell’immagine polisemica della notte. Lungi dall’essere una mera scansione temporale, essa si configura come uno spazio psichico denso di implicazioni; la notte loreficiana si pone come dialettica tra la percezione intima e la realtà fenomenica, un topos di «eventi straordinari» in cui l’ordine consueto si dissolve, lasciando emergere le dinamiche silenti dell’inconscio. Tuttavia, questa oscurità non è sinonimo di mero nichilismo; al contrario, diviene il palcoscenico di epifanie sussurrate, di incontri fugaci carichi di un significato elusivo e di una malinconica consapevolezza della caducità intrinseca all’essere.

Parallelamente a questa immersione notturna, si sviluppa un interesse peculiare per i luoghi di frontiera, con una predilezione marcata per la topografia alpina (tratto comune con la poetica di Cristiano Poletti). Le montagne, nella loro maestosità silente e nella loro stratificazione geologica millenaria, si ergono a metafore potenti di una condizione umana intrinsecamente sospesa tra la fragilità contingente e un’aspirazione alla resistenza. Tutti elementi che ritroviamo anche in Naiver (edizioni la gru, 2025), ultima raccolta del nostro poeta, nella quale le traiettorie esistenziali si snodano tra foreste dense e superfici glaciali, animando figure che vivono in una simbiosi complessa con un ambiente tanto imponente quanto inesorabile.

La montagna non funge da semplice sfondo scenico, ma si configura come un interlocutore muto, testimone privilegiato della precarietà dell’esistenza e della rapidità con cui gli eventi possono incrinare l’apparente solidità del mondo.

In questo peculiare contesto, la poesia di Lorefice – che trova espressione anche nella forma in prosa – assume spesso una dimensione cronachistica sui generis, rifuggendo da un impegno civile o sociale esplicito. La sua attenzione si focalizza sulle «cose terribili viste, masticate» (scriveva in frontenotte, raccolta del 2011), rielaborate e restituite con una cura quasi sacrale. Questa trasmutazione del reale, filtrata attraverso la sensibilità acuta del poeta, trasforma l’esperienza bruta in materia poetica, offrendo al lettore una prospettiva inedita e perturbante sugli eventi che plasmano la nostra contemporaneità. Il riferimento esplicito a Cormac McCarthy in Passeggeri solitari – «Perché noi portiamo il fuoco» – suggerisce proprio questa responsabilità etica intrinseca alla poesia: custodire una scintilla di umanità e consapevolezza anche di fronte alla desolazione e alla violenza.

La cifra stilistica di Lorefice si distingue per una lingua asciutta ed essenziale, capace di evocare immagini di potente impatto con una notevole economia di mezzi. I suoi versi rifuggono da un lirismo effusivo, privilegiando una precisione quasi chirurgica nella descrizione delle sensazioni e dei paesaggi. Questa sobrietà formale non preclude, tuttavia, una profonda risonanza emotiva, che affiora in modo sottile dalle increspature del testo, nelle pause silenziose e negli interstizi tra le parole.

E così l’approdo a Naiver segna un’evoluzione significativa, pur mantenendo un filo conduttore con le tematiche precedentemente esplorate. Il titolo stesso, con la sua ambivalenza semantica che oscilla tra un’ingenuità primigenia e una purezza originaria, suggerisce un regresso a uno stato ontologico fondamentale, un tentativo di spoliazione dalle sovrastrutture del mondo per cogliere l’essenza nuda delle cose. I personaggi che popolano questi nuovi componimenti appaiono ancora più isolati e immersi in un dialogo silenzioso con la natura, quasi figure archetipiche incastonate in una temporalità sospesa («Nessuno sa per certo dove sia stato, è tornato con i vestiti sudici, i pensieri confusi e una sportina di tela piena di mirtilli. Si sussurra sia andato in quota, dove gli alberi cessano di proteggere dal vento, dove la montagna si rivela, sovrastando ogni intruso; anfratti che pochi conoscono, canaloni e vallette improvvise…», Naiver, p. 10).

Le narrazioni esistenziali si interiorizzano ulteriormente, focalizzandosi sulle sfumature emotive più recondite e sulle epifanie del quotidiano («C’è un riposo del cuore / davanti al primo caffè del mattino, / quando ancora precari e sconosciuti / accettiamo i sottopassi, / le fermate / di questa nostra vita a due, / stanata com’è da tutte le vicende / quotidiane…», ivi, p. 53). La lingua si fa ancora più rarefatta e incisiva, raggiungendo una precisione quasi lapidaria. I versi brevi e frammentati creano un ritmo spezzato che riflette la fragilità intrinseca e la precarietà dell’esistenza. La notte continua a costituire un elemento centrale, ma in Naiver si carica di un mistero ancora più denso e di presenze silenziose, divenendo non solo sfondo ma un vero e proprio interlocutore che disvela frammenti di verità altrimenti inaccessibili. La dimensione cronachistica si attenua, lasciando spazio a una riflessione più universale sulla condizione umana, sulla consapevolezza del limite e sulla perenne ricerca di significato in un universo spesso enigmatico.

In Naiver, si acuisce ulteriormente l’attenzione al dettaglio, elevato a punctum di significato. Il poeta si sofferma su frammenti di realtà caricandoli di una valenza simbolica che trascende la loro materialità. Questa micro-osservazione diviene una via d’accesso privilegiata a una verità più profonda, celata nelle pieghe dell’ordinario. La tensione tra presenza e assenza si fa ancora più marcata, con personaggi che si muovono in un limbo tra ricordi sbiaditi e presagi incerti, e un linguaggio che suggerisce più di quanto espliciti. L’elemento del viaggio si interiorizza, divenendo una peregrinazione attraverso la memoria e l’inconscio, in una staticità dinamica carica di attesa. Infine, la funzione del linguaggio raggiunge la sua massima espressione in una lingua scarna e precisa, dove il silenzio tra le parole acquista una pregnanza significativa, invitando a una lettura lenta e meditativa.

In conclusione, la poesia di Stefano Lorefice si configura come un’indagine acuta e sensibile sui confini dell’esperienza umana. La sua capacità di intrecciare l’intimo e il collettivo, il paesaggio interiore e quello esteriore, attraverso una lingua al contempo precisa ed evocativa, lo colloca come una voce concreta all’interno di un panorama poetico contemporaneo nel quale troppo spesso assistiamo – impotenti – ai proclami autoreferenziali.

Con Naiver, questa esplorazione liminale raggiunge una nuova profondità, invitando il lettore a sostare sui margini, a interrogare l’oscurità e a riconoscere la fragile e potente bellezza di un mondo in costante metamorfosi. La poesia si configura, in definitiva, come un prezioso contributo alla riflessione sulla condizione umana nel suo rapporto complesso e ineludibile con il tempo, la natura e il silenzio.