Alcide Pierantozzi, Lo sbilico, Einaudi 2025
«Per tre anni, rincasando poco prima dell’alba, mi sono messo in ginocchio davanti al letto, ho frugato in un punto specifico sotto il materasso e ho tirato fuori il cancro dii mia madre». Alcide Pierantozzi, ecco uno «Che come dicono tutti avrebbe bisogno di uno bravo»! In questo prezioso Lo sbilico l’autore (autore finanche di sé stesso, visto che si mette in scena per quello che è) conduce un rendiconto esatto del regno delle ombre. «A un certo punto vado in bagno per fumarmi una sigaretta e sullo scanno di fianco allo specchio, nella fararandola di luce che entra dal finestrino, là dove avrebbe dovuto esserci la mia ombra – almeno quella del braccio con la mano sospesa a reggere l’accendino – in realtà c’è qualcos’altro. C’è l’ombra di un cane, della zampa di un cane». Il meccanismo di quella «malattia sfuggente», della quale è affetto Alcide, è molto semplice: essa parte dalle ombre, produce lo sbilico, fa vivere all’incrocio (o al bivio) fra due ragionamenti opposti e reciprocamente contraddittori e si risolve in una diagnosi: «Secondo il medico il mio cervello si fissa su certi punti del mio corpo per tenersi impegnato, cerca continui collaudi per evitare l’impazzimento totale: è come se s’intestardisse su un cubo di Rubik».
Alcide Pierantozzi è davvero «uno bravo»; egli, infatti, ci conduce in questo Viaggio al termine della psiche in compagnia di quello spettro che si aggira per il mondo. Lo spettro autistico. «Il medico dice che la rimozione del nome è riconducibile allo spettro autistico – che alla fine, mi sto convincendo, è uno spettro per davvero, una volontà diversa e invisibile che s’intercala alla mia». Fantasma, spettro oppure ombra che sia, questa altra parte dello specchio fa si che «Io vivo all’incrocio di due percezioni opposte del mondo, tra il recto e il verso delle cose; ogni mio ragionamento, anche quando è molto sensato, se ne va a rimorchio di un ragionamento erroneo che mi costringe a fughe continue da entrambi, a dubbi continui». «Quando qualcosa sparisce, il mio cervello va in tilt. Quando ho mal di gola, il mio cervello non prevede la guarigione, non vede oltre lo stato presente. Se una giornata finisce, non riesco a capire che ne comincerà un’altra. Vivo lo sbilico e nello sbilico delle cose». «Sento che la mia mente e la realtà non si equivalgono più. Il reale e il mentale si sfidano». Alcide vive, dunque, in un mondo privo di verità. All’interno del quale «Dio deve essere più matto di me, se è convinto di essere l’unico a esistere fuori dallo spazio e dal tempo». Lo sbilico, in fondo, non è altro che questo bivio. Ovvero: un crocevia in un mondo privo di verità, al di là dello spazio e del tempo; direttamente dentro la sofferenza.
Dall’altra parte ci sono gli psicofarmaci, le diagnosi e le visite neuropsichiatriche. Una specie di parvenza di vita è, allora, continuamente sottoposta alle oscillazioni del tono dell’umore. Una vita nella quale l’unica àncora di salvezza (ancóra o forse) possibile è rappresentata dal peso specifico delle parole. Quelle stesse parole che voci costanti dentro la testa non fanno che ribadire. Alcide Pierantozzi scrive così un libro su un disagio causato dall’ «ombra di un cane». Un cane che si avvinghia, che scuote e che percuote. Un cane capace di annullare il passato e il futuro. L’eterno ritorno dell’uguale, di Nietzsche, è un loop dal quale è impossibile uscire. Al massimo si può vivere nello sbilico … Insieme alla propria ombra. «Se fossi solo un paziente psichiatrico sarebbe più semplice, i farmaci consentirebbero al cervello di recuperare una parvenza di dominio. Nel mio caso, invece, le medicine possono soltanto resettare un cervello nato storto, riportarlo alla sua stortezza di partenza».