Kader Abdolah, Quello che cerchi sta cercando te. Un viaggio mistico nella vita e nella poesia di Rumi, Iperborea 2025, pag. 496, traduzione dal nederlandese di Elisabetta Svaluto Moreolo.
Kader Abdolah ha sperimentato la fuga dal suo paese, l’Iran di Khomeini, per questo si fa partecipe attento della vita e del peregrinare di Rumi, fuggito dalla Persia da ragazzo, in un parallelismo non privo di emozione e di nostalgia.
Il padre è Bahaoddin Walad, un mistico e pensatore di Balk odierno Afghanistan, che fugge dalla Transoxiana, l’estremo lembo orientale della Persia sulla Via della Seta, insieme al figlio di tredici anni, davanti all’avanzata dell’esercito di Gengis Khan. Il condottiero punta verso la Persia per condurre i mongoli lontano dalle steppe: uccide, distrugge, incendia senza pietà una città dopo l’altra, addirittura farà disseppellire il re persiano sepolto in una tomba anonima, per vederne bruciare il cadavere.
Bahaoddin Walad ha già allontanato le mogli, le figlie e il figlio minore per metterle in sicurezza, ma non il giovane Jalal, “una gemma inestimabile sotto forma di bambino”, di una intelligenza e di un amore particolare per la cultura, che viaggia sempre portando i libri con sé. Nei caravanserragli incontrano studiosi, poeti, pensatori in fuga come loro, perciò il ragazzo allarga i suoi orizzonti culturali e intanto ascolta i sermoni del padre: “nella sua dottrina, Dio non era più un’astrazione, diventava sostanza, qualcosa di tangibile anziché un’idea sospesa in aria […] se siete felici, siete sulla retta via”. Dunque non c’è bisogno, secondo Bahaoddin, di chiedere a Dio di portarci sulla retta via attraverso preghiere ripetute, basta guardare dentro sé stessi.
Il viaggio dura a lungo, perché lo scopo del padre è la formazione culturale del figlio: comprende Baghdad, la Siria, l’Anatolia e la Mecca, dove Jalal ha accesso a tutti i luoghi citati nella Bibbia e nel Corano. A diciannove anni arriva a Laranda in Asia Minore, dove ritrova la famiglia, dove le vestigia romane lo invitano a studiare Latino per accedere agli autori, dove incontra la ragazza che gli darà due figli maschi, Gowhar Kathun.
Jalal è conosciuto come Rumi, il grande poeta persiano che ha lasciato un segno profondo nella letteratura (Balkh 1207- Konya 1273, oggi rispettivamente in Afghanistan e Turchia). Divenuto lui stesso guida mistica dopo la morte del padre, cioè Mowlana, cerca di uscire dalla “caverna”, cerca la luce dentro di sé, cerca quella felicità che è simbolo del Dio in noi. Non molto presente nel suo ruolo di padre perché sempre lontano da casa, non trascura comunque i figli e anche la nuova famiglia nata dalle nozze con Kera Banu, dopo la morte della prima moglie.
Lo sconvolgimento nella sua vita lo porta Shams di Tabriz, un intellettuale già anziano, spirito inquieto e vagante, che si ferma a Konya, dove i due si incontrano: “Rumi e Shams trascorsero alla fattoria quaranta giorni e quaranta notti, dormendo insieme nella stessa stanza, mentre Zarkub li riforniva quotidianamente di cibo”. Shams diventa la sua ossessione amorosa: “Penso a te / Giorno e notte / Poso il capo sul tuo grembo / Giorno e notte […] Mi è stato chiesto di dare anima e corpo / a te li darò entrambi / giorno e notte […] Senza chiunque altro / la vita continua / senza te non posso stare / il mio cuore l’hai marchiato a fuoco […] la mia mente è inebriata di te”.
Per tacitare le voci di scandalo, Rumi non esita a sacrificare egoisticamente la figlia della seconda moglie, Kimia, una ragazza di sedici anni, dandola in sposa all’amante sessantenne, aprendo la strada a successive tragedie. Per Shams scriverà poesie per tutta la vita.
Con lui Rumi sperimenta la piena libertà, fino a danzare sulla pubblica piazza, al ritmo dei martelli dei ramai, quella che sarebbe diventata la danza del sama, un rito della tradizione persiana del sufismo: “Liberati dalla false regole che imprigionano il tuo spirito”.
Con questo gesto e quelli che seguiranno, era stato compiuto un passo che avrebbe provocato una frattura nell’islam tradizionale, le cui fondamenta erano state gettate dal padre di Rumi: dalla Abbazia di Mowlana Rumi, in cui si erano ritirati, “Per cercare Dio non hai bisogno di andare in un luogo specifico,” Rumi e Shams affermavano, “non in moschea e men che meno alla Mecca. Dio è dentro di te, là dove si trova il tuo vero io. Per raggiungerlo, devi raggiungere il tuo vero io. E puoi farlo attraverso il rito del sama”.
Quando non c’è più Shams, la nostalgia diventa un grido: “O, Tu! Improvvisa resurrezione, /grazia dell’immortalità. / Tu! Fuoco caduto nella selva dei mei pensieri. / Tu! Mio maestro, mia guida, / mio dolore, mia guarigione. / Ora lo dichiaro al mondo: / Shams è la mia Ka’ba, / il mio creatore, il mio monastero. / per me è insieme l’inferno e il Giardino dell’Eden. / Shams sono io”.
Kader Abdolah, esule anche lui, ha sempre recitato le poesie di Rumi apprese nella casa paterna, e continua a farlo. Qui ne riporta novantadue che lui ha tradotto, insieme a una serie di racconti che ha rielaborato, in cui Rumi aveva preso spunto da antiche storie popolari o di argomento storico e religioso. Una lettura di grande fascino che ci porta in tempi e spazi lontani, e scolpisce una figura indimenticabile: “Gli afgani considerano il grande poeta afgano, perché è nato nella loro terra. I persiani lo considerano uno di loro perché scriveva in persiano. I turchi lo considerano turco, perché gli hanno dato un tetto, una nuova lingua e una nuova identità”.
