Philip Roth, Portnoy, traduzione di Matteo Codignola, Adelphi 2025
Giovane avvocato ebreo, ateo, comunista, dotato di un QI pari a 158, celibe, senza prole, maniaco sessuale ma, soprattutto, nevrotico, così si presenta nel 1969, data della prima pubblicazione del volume, Alexander, detto «Alex», Portnoy. Il romanzo in questione, adesso ripubblicato da Adelphi con una pregevole cura editoriale di Matteo Codignola, è, appunto, Portnoy, di Philp Roth. Nato nel 1933 come il suo autore e come il suo autore nel New Jersey, Alex si sottopone (33 anni dopo) a una, apparentemente, interminabile seduta di psicoanalisi, seguito dal dottor Spielvogel. Cosa sta cercando, davvero, Portnoy? Cosa vuole conoscere di sé stesso questa povera vittima di un «arrapo costante»? Cosa c’è che, veramente, egli ancora non sappia? Il suo monologo è lucido. Le sue parole si riferiscono a fatti, situazioni ed esperienze. I suoi ricordi dell’infanzia, per esempio, sono distinti. «Si può sapere cos’avevano questi genitori ebrei per farci sentire principi, piccoli unicorni, unici, geniali e splendidi come nessun altro nella lunga storia dell’infanzia, paragoni di ogni perfezione, da una parte; e dall’altra seccatori, inetti, idioti, irrecuperabili, stronzetti, piccoli ingrati».
Dai particolari ricordi che accatasta l’uno sull’altro in questa lunga seduta analitica, emergono tre desideri che egli ha cercato e che cerca, probabilmente ancora. Approvazione dalla madre, perdono dal padre e sicurezza da sé stesso. Lungo l’elenco di una galleria di personaggi che contornano la vita di Portnoy, si possono scorgere altri sentimenti (volta per volta, ma anche insieme, cercati o provati).
La sorella Hannah è inesistente, eppure «sposa un comunista», Morty Feibish. La ragazza che ha sempre sognato, Mary Jane detta «Scimmia», è grossolana, stereotipata e instabile. La prima vera ragazza che ha avuto, Kay Campbell, gli chiede di convertirsi, evidentemente al cristianesimo, e l’amore finisce. Un altra fidanzata, Sarah Abbott Maulsby (detta «Zucca»), non può essere mai amata perché «Non sopportavo le sue fragilità. Ero geloso dei suoi successi, la sua famiglia mi stava qui». Una giovane ragazza ebrea, Naomi detta «Zucca ebraica» o, anche, «Zucca2», è quella che, forse, gli dice la verità… Con un linguaggio appropriato al tipo di umanità che sta descrivendo, solo un po’ datato, in alcune parti, per via di lotte e contesti che oggi negli Stati Uniti non esistono più, Philip Roth – e questo è il bello – non sta cercando proprio nulla. E’ vero c’è la descrizione perimetrata esattamente degli ebrei d’America; «L’intero branco di zie e zii e vecchi cugini»; è vero: c’è qualcosa come un richiamo al welfare, ai bisognosi, a quelli che, se non fossimo, oggi, così ottusi, chiameremmo ancora i proletari, è vero c’è tutto questo ma il romanzo sta tutto da un altra parte. «Pianista. Per quella parole ci sballano, dottore, quasi quanto per dottore. E specializzazione. Anche se il massimo dei massimi è un ufficio tutto suo. Ha aperto un ufficio tutto suo a Livingston. “Alex ti ricordi Seymour Mona?”. E se non lui, Aaron Fara, o Howard Banano, o un qualsiasi altro cazzone in classe con me alle elementari venticinque anni prima, cioè l’ultima volta che avevo pensato a lui».
Oltre a cogliere qualcosa come un sentimento universale – a tutti noi, nella vita, sono necessariamente toccati discorsi simili – Roth getta il coltello nella piaga. «Silenzio. Ne approfitto per cercare di capire cosa ci fanno due che non hanno niente da dirsi non solo insieme, ma nel Vermont». «In questa storia di disincanto», come borbotta Portnoy, pensando al suo rapporto col padre, l’incanto sta tutto nella trasposizione. E cioè nel ponte, nel meccanismo che mette a contatto l’io narrante col suo analista, con i lettori del romanzo e con un universo familiare nel quale: «Secondo lei a cosa servono tutte quelle deliranti prescrizioni alimentari, se non a preparare i bambini ebrei alla repressione prossima ventura? Preparati, tesoro, la preparazione è tutto. Le inibizioni non crescono sugli alberi, sa – richiedono pazienza e concentrazione». E allora … Il sesso! La sessualità che esplode ed esplora ma non sa darsi una ragione di sé stessa. Tipicamente ogni vero nevrotico si vede in una maniera nella quale tutti gli altri non lo vedono mai.
Il sesso, per Portnoy, non è l’anticamera della scoperta di qualcosa come la coscienza. Scrive Philip Roth di Alex che si auto-osculta: «Il motivo per cui vivo così, lacerato fra desideri che ripugnano alla coscienza, e una coscienza che ripugna ai desideri». E non basta l’impegno civico del giovane avvocato. In fondo così come non c’è coscienza, nel protagonista di questo mirabile romanzo, non c’è desiderio. Roth è esplicito su questo punto: «Dottore, gli altri pazienti sognano, a me invece le cose succedono». In effetti, senza desiderio e senza coscienza non rimane che la realtà.