24 Luglio 2025
Culture Club

Il sionismo monco di Hannah Arendt

«Viviamo in un’epoca in cui le molte piccole ingiustizie alle quali noi tutti siamo stati fin troppo pronti a rassegnarci, si sono trasformate in un’unica ingiustizia organizzata, nel dominio del diavolo sulla Terra». Così Hannah Arendt, in questa sua racconta di scritti di «politica pratica» intitolata Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-1945 (A cura di Marie Luise Knott, Prefazione di Enzo Traverso, Traduzione di Graziella Rotta, Einaudi, Tortino, 2025). Naturalmente, il «diavolo» in questione è il nazionalsocialsimo di Adolf Hitler; mentre, le «molte piccole ingiustizie» sono quelle che la stessa Arendt affronta lungo l’itinerario compositivo di questi testi (scritti per Aufbau, il giornale degli esiliati ebreo-tedeschi che si stampava a New York, città nella quale la filosofa aveva trovato rifugio nel 1941). Numerose variabili e una sola costante contornano, dunque, il totale del testo arendtiano. Le costanti hanno nomi precisi: nazionalsocialismo, antisemitismo, assimilazione, formazione di un esercito ebraico, la questione dello status degli ebrei in quanto apolidi, il possibile sviluppo della questione ebraica – una volta risolta la Seconda Guerra Mondiale – nell’idea di una federazione dei paesi del Mediterraneo a trazione europea e il ruolo storico e sacrificale degli ebrei in quanto, comunque, «vittime». Certo, l‘ensamble delle questioni è, davvero, molto complesso e spinoso. Intanto, la mancanza di una qualsivoglia cittadinanza comporta la rivendicazione di una certa esistenza politica rispetto alla natura stessa di un «popolo senza territorio». E inoltre: quali rapporti si potrebbero, un giorno, instaurare con i paesi arabi, i quali dovrebbero essere i «vicini» con cui, comunque, dover fare i conti? La «variabile» di cui si diceva, invece, è intravista all’interno di un sionismo, sempre a giudizio della Arendt, pieno di fori, monco; mancante di qualcosa di determinato e di determinante. Ma di cosa, in verità? Se è vero che il sionismo appare all’autrice delle Origini del totalitarismo come l’opportunità (se vogliamo, più che altro, del tutto contingente) che ha fatto sì che un popolo di individui monadici trovasse una propria «veste» politica, è anche vero che nessun popolo può mai dirsi «eletto», e che la Palestina, in quanto nuovo futuribile Stato ebraico, non avrebbe mai dovuto sorgere escludendo del tutto gli arabi. Dunque? Dunque, quello che serve è un nuovo sionismo; ma questa volta: totale e completo. Senza fori, insomma! Un sionismo disposto a mettere in discussione il proprio mantra, che è, sempre, del resto: «Il ritorno alla Terra dei padri». Hannah Arendt, seguendo passo dopo passo l’evoluzione politica degli anni nei quali scrive questa serie di articoli, è invece convinta che l’auto-emancipazione del diasporico popolo ebraico avrebbe dovuto rappresentare l’atto di ribellione di tutti gli apolidi, dei paria, dei rifugiati, dei profughi, dei senzapatria e dei parvenu che, nel frattempo, si erano ridotti a vivere della altalenante filantropia altrui, della magnanimità di alcuni Lord e di un assimilazione sempre refrattaria. E quest’ultima cosa si sarebbe verificata perché «Dal 1920 quasi tutti gli stati europei hanno accolto grandi masse di uomini che non hanno diritto di cittadinanza in nessun luogo, che in nessun luogo hanno protezione consolare, i moderni paria». Persone di infima condizione sociale, reietti, esclusi, gente che si trova a essere sempre «fuori» qualcosa, gli allontanati, persone indegne di considerazione, un popolo trascurato, non considerato, omesso e tralasciato – in una parola: gli «ebrei» si sono ridotti a essere gli ultimi degli ultimi. Ma non è solo questo! La Arendt si rende ben conto del problema centrale relativo alla mancanza di un suolo. Il territorio, che insieme al popolo e allo Stato tratteggiano il perimetro della  politica, è un ennesimo foro. Il sionismo della Arendt non è nazionalista; invece ella pronostica la creazione di uno Stato che non escluda gli arabi in Palestina. Ovvero: sotto l’ombrello di una nuova «costellazione politica», anche il nazionalismo sarà superato. «Un uomo attaccato in quanto ebreo non si può difendere in quanto inglese o francese. Se lo fa, l’unica conclusione che tutti trarranno è che egli non si difende affatto». Perciò: «Ci si può difendere solo tenendo conto della veste in cui si viene attaccati». E proprio questo «abito», la filosofa, adesso, cuce addosso al popolo ebraico. In politica, l’importante è l’«in quanto», ella sembra dirci. Per questo insiste tanto sulla formazione di un esercito ebraico; una legione di uomini armati possiederebbe, infatti, quell’«in quanto»: «Un esercito ebraico nel 1942 avrebbe significato poter costringere i nazisti, in base alla legge della rappresaglia valida in guerra, a concedere agli ebrei d’Europa lo status di stranieri nemici, e ciò sarebbe quasi equivalso alla loro salvezza». In sostanza, Hannah Arendt alza lo sguardo; vola un po’ più in alto dei confini ai quali si è ridotto il  sionismo del suo tempo. E’ alla ricerca di una specie di compromesso politico; la figura che manca rispetto alla triade Stato-popolo-territorio è, proprio, il territorio – e senza territorio niente cittadinanza. Ecco che allora bisogna inventare una scappatoia: dare materia là dove la materia manca. Là dove essa è forata. Occorre prevedere «Per tutto l’ebraismo europeo un identico status politico, che includa il riconoscimento della nazionalità ebraica e che preveda per l’antisemitismo, in quanto delitto contro la società, la punizione della legge». Un artificio, insomma. Esattamente come se da un campo di forze si potesse generare la materia: il territorio; allo stesso modo nel quale il bosone di Higgs opera nella fisica contemporanea. Sciogliere gli stati nazionali in una «confederazione di nazioni con parlamento europeo»; alzare lo sguardo, insomma piuttosto che, come il sionismo in quel periodo usava fare, abbassarlo. «La Palestina è delimitata da paesi arabi, e uno Stato ebraico in Palestina, con una preponderante maggioranza ebraica, una Palestina puramente ebraica sarebbe una creazione sommamente precaria senza un precedente accordo con tutti i popoli arabi con i quali confina». Sciogliere i nodi, colmare i fori. Hannah Arendt, in questo volume, ci regala il sogno di un «futuro possibile», che, però come si sa, non è mai divenuto «presente storico». Ciononostante, l’impegno della filosofa di Hannover per il suo popolo e per i gineprai nei quali si aggrovigliava la politica del suo tempo ha consentito, alla fine, almeno un risultato definitivo. Molti dei concetti politici che avrebbero disegnato il percorso filosofico della Arendt hanno trovato, qui, il loro germoglio. E quella presa di «consapevolezza», che la stessa Arendt pretendeva per il suo popolo, alla fine non sarebbe trascorsa invano.

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.