26 Settembre 2025
Sun

Paolo Nori, Chiudo la porta e urlo, Mondadori 2024

«Ecco, in questo libro su Raffaello Baldini, uguale. Parlo, di Raffaello Baldini, ma parlo anche di me, e della mia vita, e dei miei genitori, e di mia figlia, e della mamma di mia figlia e anche di mia nonna Carmela», scrive Paolo Nori, in questo suo Chiudo la porta e urlo. In fondo, il senso di questo romanzo, sincopato e frattale come al solito in Nori, è esemplato dalla percezione che l’autore ha di sé stesso in confronto al suo alter ego (ma sarà, poi, veramente un alter ego?): il piccolo/grande poeta di Santarcangelo di Romagna. In Baldini Nori, dunque, riflette e si riflette. In Baldini, e nella sua poesia sulfurea («Baldini ha cominciato a pubblicare che aveva più di cinquant’anni, e il tema principale, delle poesie di Baldini, secondo me è la morte»), Nori rinviene pezzi della propria esistenza, pezzi di letteratura (soprattutto russa) e pezzi della sua terra, l’Emilia; una terra nella quale «Uno che viene da fuori non lo direbbe mai, a vederci che teniamo su una compagnia di trenta persone e  beviamo lambrusco e diciamo cazzate, non lo direbbe mai che diamo i pugni al muro, quando torniamo a casa». Poesia malinconica, quella di Baldini e prosa (tra)sognante quella di Nori; due facce di una stessa medaglia: l’essere umano e l’universo; la luce. Ma, in che senso? Al principio, per scrivere, devi avere la testa spaccata. «E Čechov gli aveva risposto Gor’kij, gli aveva scritto, ma cosa dice, lei lo sa benissimo che non è che ci si spacchi la testa perché si scrive, ma si scrive perché ci si è già spaccata la testa». Poi… Bisogna non possedere la capacità di sapersi allacciare le scarpe. O non amare farlo questo non si sa. «Giorgio Manganelli una volta ha scritto che lui ha cominciato a scrivere perché non era capace di allacciarsi le scarpe». Infine: occorre cercare, proprio, una certa luce.

«Quando è uscita la prima raccolta di poesie di Anna Achmatova, nel 1912, un critico, Viktor Sklovskij, ha scritto che Achmatova parlava delle cose che noi usiamo tutti i giorni e proiettava, su quelle cose, una luce che faceva sì che noi le vedessimo per la prima volta. Erano così cose di tutti i giorni, che non sembravano neanche cose di tutti i giorni, Ecco, Baldini, uguale, mi sembra». Nel prisma baldiniano, dopo un infanzia parmigiana e un itinerario calzaturiero-letterario – che ha condotto Nori alla seguente dichiarazione: «Quando mi domandavano che mestiere facevo, dicevo che scrivevo dei libri» – l’autore, tra rifrazioni e diffrazioni, riflette il mondo delle cose. Con una grande malinconia di fondo, Nori, quindi, scrive: «A me l’allegria, la felicità, non mi piacciono mica tanto, se devo dire». «Quando le cose vanno bene, non sono tanto convinto di avere diritto, che le cose vadano bene». Tutto ciò è un po’ come se ci fosse una certa quale insoddisfazione e tensione di fondo, una paura di vivere, una specie di inadeguatezza – che, probabilmente, tutti noi, come Paolo Nori, ogni tanto avvertiamo. E che questo non essere all’altezza di nulla avesse, poi, spinto sempre più l’io narrante di questo romanzo proprio nelle braccia di Raffaello Baldini. Probabilmente: il meno indicato a ricoprire questo ruolo, appunto, a causa di quell’inadeguatezza comune al poeta tanto quanto allo scrittore. Raffello Baldini, a questo punto, rappresenterebbe un «galantuomo» o, più probabilmente, un uomo di altri tempi. In questo modo, egli sarebbe giunto a trasporre oggetti, strade, facce, canali, case e tutto quello che di materiale e concreto era ed è in quell’Emilia che entrambi, Nori e Baldini, hanno visto apparire e sparire come un fotografico flash. Come accade alle nostre stesse vite.

Gianfranco Cordì

Gianfranco Cordì (Locri, 1970), ha scritto dodici libri. E' dottore di ricerca in filosofia politica e giornalista pubblicista. Dirige la collana di testi filosofici "Erremme" per la casa Editrice Disoblio Edizioni. Dirige le tavole rotonde di filosofia del Centro Internazionale Scrittori della Calabria.