16 Novembre 2025
Sun

Tiziano Broggiato, Il soffiatore di vetro, Marietti1820, Bologna 2025

Ci sono versi che possono distinguere la poesia dal suo contrario. Si comincia a leggere l’auto-antologia di Tiziano Broggiato e si percepisce da subito un mondo costruito dentro alle parole, con la consapevolezza di chi tiene la mente ordinata sul proprio lavoro poetico, mentre affonda i sensi nel caos dell’esistenza. Per esempio: “all’avvenenza dei roghi/prima di avvinghiarsi/al lampo in cui tutto diventa/meditazione e perdono”.
C’è in questo libro un percorso nel tempo, ci sono un vortice di fulmini, bordate di vento e squarci ad altezze che oggi la maggior parte della poesia non sa più frequentare. Il soffiatore di vetro sono poesie scelte tra tutte le opere dell’autore, dal 1983 al 2025. Dentro ci sono nomi di mestieri e di attori, cioè di persone che fanno azioni: il copiatore di foglie, un tuffatore, pattinatrici, guardie di confine, cecchini, amanti, predoni, ecc. Come un campionario umano che si muove sulla scena disegnata fin nei più piccoli dettagli emotivi dal poeta. E poi luoghi, tanti luoghi. Una specie di atlante delle passioni, come se lo spazio evocato dalla e nella poesia potesse davvero mappare la poetica di Broggiato, immortalare idee e cose, legarle definitivamente al tempo. Ed è un tempo – si badi bene – sempre al presente, cioè quasi eterno, di una scrittura che tiene il passare delle mode e degli anni. Non potrebbe essere altrimenti quando un poeta mette in scena, con sincerità e ironico scoramento, il dialogo col padre, che è sempre un dialogo in assenza, tra sé e se stesso.

Comincia così la poesia Il contagio di Celan: “I treni della notte/sono secchi schiocchi di frusta/sulle palpebre dei bambini/allineati a Czernowitz”. E c’è la storia del Novecento e quella antica. Storia conosciuta e consapevolmente utilizzata nei versi, come in Masada, col suo “ponte mobile”.
Ma soprattutto, in questa poesia, ci sono viaggi. E sono i viaggi che mi rendono Broggiato così vicino: la pioggia gialla in Africa, il cielo pomeridiano di Amsterdam, i miasmi di Roma, Brooklin, Atlantide, Osiv, la Patagonia e Casablanca, Londra e Madrid, e un continuo citare zone, aree, posti. C’è un interesse costante che riscopro e riattraverso in questo libro, un caleidoscopio di spostamenti, passaggi, stupori, nuove visioni e rinnovati orizzonti. O anche soltanto la descrizione soggettiva di Milano, Parigi, Monaco o Praga ne La migliore stagione.
E come non ricordare la lunga poesia della conversazione tra l’autore e Sylvia Plath che si addensa in un filo di un’ardente estate, perché l’estate è sempre più di altre la stagione dei poeti. Oppure la perfezione costruita sull’autobus in cui “la ragazza sfortunata” non saprà più quale sia la sua casa. Sono momenti che fecondano questo libro come luci accese su questo nostro presente letterario.
Ma un auto-antologia potrebbe rischiare un ritmo apologetico. Eppure non è affatto questo il caso, dove il poeta si trova a fare le pulci al “terribile partner” canettiano, cioè se stesso. Ci sono alcune poesie che mettono in dubbio la condotta esistenziale dell’autore, che diventa a volte ciò che aveva temuto, un “sovrano del nulla” che soprattutto nello specchio dei figli riflette un’impietosa autocritica e un senso di colpa imperituro che, come una ferita improvvisa, si porta appresso “il suo latente bisogno di espiare”.

Il soffiatore di vetro altro non è che lo scrittore, il poeta che nella lingua rende trasparente l’universo che crea la vita. Ed è una vita che Broggiato riporta in vita con la scrittura, come un parto, come una litania archetipica che costruisce la realtà, come in Autoritratto in movimento: “Sulla sponda opposta, una serie di cespugli/si accuccia preparandosi alla pioggia”. Questa immagine di un prato vicino a un fosso non è soltanto l’osservazione del poeta, ma il principio del “poiein”, della creazione, quel fare, costruire un’immagine nel poetare.
Impreziosiscono questo libro, che mette una pietra miliare nella carriera poetica di Broggiato, i testi finali di Alberto Bertoni, Arnaldo Colasanti, Gualtiero De Santi e Paolo Febbraro. Quattro letture che mostrano “la mitezza e l’ardore” della parola del poeta.