21 Dicembre 2025
Sun

Paolo Del Colle, L’angolo cieco, Amos edizioni 2025, pag. 86

 

Respiriamo gli eucalipti nella poesia di Paolo Del Colle, ascoltiamo il frinire di cicale, qualche gatto si affaccia tra le case o corre dietro alla porta al suono del citofono; ci sono i rami, la pioggia, il bar, il caffè, le ringhiere, le foglie per terra, qualche cane, i suoni e i profumi. Nel dubbio che accompagna l’esistenza si legge il bisogno di aggrapparsi alle cose concrete, che ci aiutino a definirci, a prendere contatto con la nostra stessa concretezza, quando “il dubbio / esce dalla mente cerca le parole /negli alberi le facciate delle case / i portoni i nomi sui citofoni”.

C’è un alternarsi di due voci a una voce sola, che apre su un’assenza a cui non si può porre rimedio, perché il passato non si cambia e l’ultima volta, “l’ultima / in cui eravamo /insieme”, non torna. Il passato rimane l’unico punto fermo, mentre “si tira avanti / si trascina il futuro”.

Le “macchie di sangue” che compaiono al posto delle “piume bianche” sono il segno della continua e tragica trasformazione di tutto: un breve indugio può fare la differenza tra la vita e la morte, vittime come siamo di un crudele gioco a dadi, prede inseguite dai “caccianti”. Del resto “la vita è fatta di turni, /di file d’attesa, di spinte, / come saprò quando toccherà a me?”

Una poesia che non cerca la musicalità, quella di Paolo Del Colle, eppure fluisce leggera mentre indaga sul sé, sui tempi e gli accadimenti della vita, sulle ansie, sulla solitudine, nella impossibilità di intervenire sull’ordine delle cose, di sfuggire ai disegni del fato: “puoi credere che l’ordine segreto / sia che chiunque merita /ciò che accade”, in questa mancanza di stabilità e certezze, nella precarietà del tutto. Un senso di stupore e di dolore attraversa le pagine, una paura dei tempi futuri, con “la paura di avere paura” di “quest’aria che tira”, con “il fiato che sente sulle spalle”, senza sapersi spiegare “come si è giunti a tanto”.

Forse una via di fuga potrebbe trovarsi nel fermare il tempo e vivere in un continuo presente, dividendo ciò che è stato da ciò che non è stato, mantenendo vivo il passato col ricordo: “sperando che il tempo / si interrompa ti /riporti indietro / a quel giorno quell’ora / in cui tutto era possibile?” Si ha la percezione delle sliding doors, di porte che potevano essere aperte in modo diverso, di scelte già fissate, comunque il passato ci appartiene, ci definisce: tutto rimane, si fa dunque presente, se non si dimentica ciò che è stato.

In questa continua indagine sul sé e sugli altri – che cosa si proverebbe a vivere la vita di un altro? – si crea il senso dello sdoppiamento, come una  volontà di uscire da se stessi, nel tentativo di sottrarsi alle offese del tempo e a quelle subite dagli anni.

In questo fluire in cui le persone amate scompaiono lasciandoci nel dubbio di averle o no amate abbastanza, nel nostro stesso fluire, continuo è il corpo a corpo col tempo, sia quello che ha rubato le occasioni, sia quello ancora inesplorato. Ma nell’angolo cieco, “ora ti attende / quello che non sai ancora”: un’alba che sorge, il profumo degli eucalipti, i gatti che aspettano dietro la porta spezzando la solitudine, la concretezza che riporta al reale e invita a non essere troppo severi con se stessi e ad aprirsi a un nuovo possibile inizio.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.