Meloni e la sinistra
Firenze. Piazza San Lorenzo. Verso la scalinata, il monumento a Giovanni delle Bande Nere. Poco più là il sindaco di Pistoia, Alessandro Tomasi, sostenuto da una coalizione piena di sigle: FdI, Fi, Lega, Noi moderati, lista civica «È Ora». Giorgia Meloni sta comiziando. Dalle Bande Nere alle sigle partitiche ad Hamas, il passo è breve. Duemila persone. Non poche per il capoluogo della regione rossa. Prima di Meloni, o forse dopo, parlano Tajani e Salvini. Il cosiddetto centro-sinistra (in cerca da un’identità da più anni, come i Sei personaggi di Pirandello) dice: «è più fondamentalista di Hamas, prigionieri di un radicalismo ideologico che non sanno più come saziare e gli impedisce di ragionare con razionalità e responsabilità».
Elogio di Donald Trump, al quale si rivolge anche la vincitrice del Nobel per la Pace María Corina Machado Parisca (e probabilmente questo la dice lunga sullo stato delle cose attuale). «C’è una persona che bisogna ringraziare», dichiara Meloni. È Donald Trump, che ha portato la pace. La pace che non c’è all’interno di questa, come si esprime ancora Meloni, «sinistra italiana».
Eugenio Giani è uomo di esperienza, un’esperienza che lo ha portato, durante il precedente mandato, a esercitare un «presentismo» che ha dato la sensazione ai toscani che il loro governatore era sul pezzo. Ma il problema non è Giani.
In linea generale alla sinistra manca una progettualità, una visione, un leniniano Che fare? Il «presentismo», per non rischiare di diventare governo della contingenza, ha bisogno di un trascendentale: bisogna andare oltre, andare oltre il dato e il problema immediato.
La Meloni c’ha provato e ne incassa alcuni risultati. Inoltre ha accusato la sinistra di fondamentalismo. In sostanza, l’idea che sta alla base di quanto ha affermato la Presidente del Consiglio è che tutte le iniziative messe in campo dalla sinistra in questi mesi (riguardo la triste situazione della Palestina) non sono servite a niente e che ha risolto tutto Donald Trump. Tradotto in termini filosofici, tutto ciò ci appare come il rovesciamento della nota tesi di Edward Bernstein: «Il fine è nulla, il movimento è tutto». Invece col suo movimentismo, la sinistra non ha raccolto nulla, mentre con una schmittiana «decisione» Trump ha raccolto tutto. Carl Schmitt è il rappresentante del decisionismo contro il normativismo di Hans Kelsen. Da una parte c’è un «a priori» che parte concettualmente dall’alto, e dall’altra parte, un movimento (che parte dal basso, dall’esperienza). Meloni ha voluto dire che la deduzione ha vinto sull’induzione. Che le cose si risolvono decidendo e non facendo cortei o flotille. Il punto è che così le cose possono deciderle solo le persone che stanno in alto. Pensavamo di aver superato questo stadio, e invece ci siamo ancora conficcati dentro. Non cambierà. E la sinistra farebbe meglio ad accorgersene, visto che adesso vive in un limbo adolescenziale che non serve né a se stessa né al Paese.
