“The Brutalist” (di B. Corbet, USA 2024)
Il titolo del film qui recensito deriva direttamente da uno stile architettonico ideato in Gran Bretagna negli anni Cinquanta del secolo scorso e caratterizzato dalla esposizione dei materiali ‘bruti’ utilizzati (p.es. calcestruzzo) come da strutture monolitiche privilegianti la funzionalità, secondo modelli ispirati da Le Corbusier, Louis Kahn e altri, e ciònrispetto al decoro, all’articolazione degli ambienti e alla cromaticità [ <https://it.wikipedia.org/wiki/Brutalismo>; <https://moveablefest.com/sebastian-pardo-brutalist/> ].
Un architetto è infatti al centro dell’intreccio. László Tóth (Adrien Brody), ebreo praticante ungherese, nel 1947 emigra a Filadelfia dopo essere scampato all’Olocausto. Costretto a lasciare sua moglie in Europa, si installa all’arrivo negli USA nel retrobottega di un suo cugino mobiliere, Attila (Alessandro Nivola). La primissima parte del film è una efficace introduzione anche visiva alla modernità americana (oltre a trattare i rapporti di László con il cugino e la moglie di questi, che lo concupisce, ma queste dinamiche nell’economia del racconto progressivamente evaniscono). Le competenze di architetto di László Tóth divengono note: la sua formazione di architetto è tra l’altro avvenuta alla grande scuola d’arte e design tedesca anteguerra della Bauhaus. Dotato di una visione dell’architettura originale e innovativa egli entra in contatto con l’industriale Van Buren (Guy Pearce). Si tratta della relazione interpersonale in definitiva più rilevante della storia e prende avvio con un primo lavoro che Van Buren commissiona a Tóth, e dal quale quest’ultimo, che del cantiere e della manodopera ha anticipato le spese, dipende dal punto di vista economico. Le cose si mettono male e presto assumono un ruolo ulteriori elementi: l’amicizia di László con un senzatetto di colore, la caduta irreversibile nell’uso e abuso dell’eroina, che contribuisce a trasformarlo in un marginale costretto a vivere in un dormitorio pubblico e a estrarre carbone in una periferia di Manhattan, ma poi anche l’arrivo di sua moglie Erzsébet (Felicity Jones), e di sua nipote Zsófia (adulta, Raffey Cassidy) in America nel 1953: l’una in sedia a rotelle, l’altra che non proferisce più parole, entrambe a causa delle sofferenze fisiche e morali di guerra e persecuzione. Quando Van Buren, combattuto tra la sua mancanza di comprensione per l’estetica e la logica dei progetti di Tóth e il fascino che questo straniero colto e talentuoso esercita su di lui, gli paga comunque il primo progetto mai retribuito, Tóth riprende una vita di società, e riceve una prestigiosa commissione. Dovrà far costruire un grande centro sociale nella cittadina, non lontana da Filadelfia, di Doylestown in Pennsylvania. Essa avrebbe dovuto intitolarsi alla memoria del padre di Van Buren.
Anni dopo la famiglia di Tóth si è stabilizzata a New York, dove ciascuno sembra trovare una collocazione lavorativa e una relativa soddisfazione. Ma i nuovi equilibri dureranno per questo architetto ‘maledetto’ solo poco: risprofonda nell’ubriachezza e nella droga, e torna a Doylestown dove è attirato dall’idea di ricominciare i monumentali lavori per Van Buren: la realizzazione del progetto diventa una ossessione, e si trascura tutto il resto. Zsófia si è invece con gli anni ripresa e si è trasferita in Israele dove Erzsébet decide di raggiungerla. Il film si conclude con un salto cronologico in avanti, prendendo come data drammatica il 1980, quando la mostra di architettura di Venezia è dedicata alla carriera di Tóth, tra le opere del quale l’Istituto Van Buren poi terminato. La moglie di Tóth è morta, la nipote legge un discorso per conto dello zio vivente ma invalido: l’Istituto è stato concepito secondo modelli spaziali e edilizi, ma anche mentali, ispirati dall’esperienza del lager.
Questa lunga sinossi tiene conto anche della durata del film (210’, con 15’ di intervallo), una narrazione romanzata con toni da epopea a tratti artificiosa, ma certo non noiosa: le tre ore e mezzo della proiezione non pesano, perché il racconto e il modo in cui Corbet (apprezzato dalla critica sin dall’esordio alla regia nel 2015 col dramma psicologico L’infanzia di un capo) gira sono accattivanti e le sequenze si flettono con perizia ai diversi contesti anche sociali rappresentati. Interessanti sono la ricostruzione del fenomeno dell’immigrazione negli Stati Uniti, come terra dove bene e male, accoglienza e diffidenza si mescolano, e le speranze possono essere deluse e ribaltate come ribaltata è la Statua della Libertà inquadrata in una delle prime scene, e pure interessante è l’investigazione psicologica sul personaggio di Harrison Van Buren, nel gioco sottile di amore e odio, invidia e ammirazione, possessività e rabbia, nei confronti di Tóth e della sua incontrovertibile genialità. Anche da parte di Tóth, però, ben resa è la complessità dei sentimenti verso il suo nemico-amico-committente Harrison Lee Van Buren. Particolarmente suggestive le sequenze ambientate nella cave di marmo delle Apuane (monte Bettogli) dove l’architetto si è recato per l’acquisto e l’importazione dei materiali destinati all’edificazione dell’Istituto assistenziale cosí come alcune scene girate nel centro di Carrara. La colonna sonora si affianca con efficacia alle diverse sequenze. Non è un biopic, questo film aspro e discontinuo, invenzione di Corbet assai ambiziosa anche come formato e scelte tecniche: salvo poche scene girate in digitale, la pellicola è in 70 mm, cioè ad alta definizione con fotogrammi di dimensioni orizzontali maggiori, utili a dare panoramicità alle immagini. Ha ottenuto il premio per la migliore regia a Venezia 2024 e tre Oscar: per il migliore attore protagonista (Adrien Brody), la migliore fotografia (Lol Crawley) e la migliore colonna sonora (Daniel Blumberg).
Voto: 7.5